Il surplus commerciale dei poveretti (I parte). Record dell’avanzo della bilancia commerciale italiana, non perché è esploso l’export ma perché è imploso il consumo interno.

L’Istat, nel 2017, ci rivela che l’avanzo della bilancia commerciale italiana – su dati 2016 – ha raggiunto 51,6 miliardi di euro, migliorando i 41,8 miliardi del 2015. È la cifra record da quando l’istituto di statistica nazionale ha iniziato, nel 1991, a parametrare questo dato.
Nel dettaglio, il saldo della bilancia con i Paesi Ue è stato di 11,698 miliardi, a fronte dell’avanzo di 8,585 miliardi registrato nel 2015. Mentre i mercati di sbocco più dinamici sono Giappone (+9,6%), Cina e Repubblica Ceca (entrambe a +6,4%), Spagna (+6,1%) e Germania (+3,8%). In forte crescita l’export di articoli farmaceutici, chimico-medicinali e botanici (+6,8%), autoveicoli (+6,3%), mezzi di trasporto escludendo gli autoveicoli (+4,6%) e prodotti alimentari, bevande e tabacco (+4,2%). Invece sono in pesantissimo calo gli acquisti dalla Russia (-26,3%), così come quelli di gas naturale e di petrolio greggio (rispettivamente -28,5% e -20,4%).
Sembrano buone notizie e in parte lo sono però non facciamo salti di gioia perché, per esempio, i veicoli sono principalmente dei modelli fabbricati in Italia della Jeep e venduti negli Stati Uniti. Soprattutto, l’eccedenza commerciale è originata dalla compressione dell’importazione rispetto all’espansione dell’export.
Quindi, in realtà, la gara del commercio mondiale la stiamo perdendo ma la mancanza di domanda interna, sia del privato – a causa delle incertezze politico-economiche, della disoccupazione dilagante e della perdita del potere d’acquisto della classe media – sia del settore pubblico – in primis per la miseria di cassa che abbiamo ma anche per la necessità di contenere il debito pubblico e per assecondare le richieste della Commissione europea sulla riduzione del nostro rapporto tra deficit e Pil dallo 2,4% a 0 – fanno registrare un grande surplus. Purtroppo, però, per il motivo che ho appena spiegato, è il surplus dei poveri.
Sconforta anche un altro dato. Il 60% del nostro export si ferma nell’area Ue ma peggio ancora ci mancano sia le esportazioni di prodotti hi-tech sia l’approdo verso i mercati in forte crescita. Mentre così i nostri produttori sono costretti a combattere la concorrenza dei mercati emergenti che hanno ben altre marginalità; che insieme alla sotto-dimensionalità – spesso essere una multinazionale “tascabile” è una criticità e non un valore aggiunto – non permettono la possibilità di fare investimenti importanti in ricerca e sviluppo per innovare i nostri prodotti, considerando anche lo stato miserabile delle nostre università.
L’eccedenza commerciale è più che compensata dai flussi di capitale – di banche e investitori stranieri e di tanti italiani – che lasciano il Paese perché non vedono opportunità di investimento. Pertanto la nostra liquidità interna è sempre più bassa, mentre l’immobiliare è depresso perché, logicamente, quando qualcuno ha denaro da investire acquista appartamenti a Boston o Bangkok – come ho fatto io stesso recentemente – piuttosto che comprare immobili in Italia con rendimenti bassi e tasse elevate.
 
Segue e termina giovedì 20 luglio.
 
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