Difficili scenari di transizione per la Cina di Xi

Il futuro del Dragone 

Lo sviluppo di un’economia nel corso dei decenni non procede mai in modo graduale e lineare ma si articola e scompone in varie fasi, spesso intervallate da crisi, che riconfigurano i rapporti di forza sociali e di conseguenza redistribuiscono il potere politico. Ad esempio la meccanizzazione dell’agricoltura, il trasferimento della forza lavoro dai campi alle fabbriche, l’espansione dei servizi, l’avvento dell’economia della conoscenza.

Quando viene ad esaurirsi la spinta propulsiva di una fase, la leadership politica si trova di fronte ad un dilemma angosciante.

Tanto più angosciante quanto più la fase di sviluppo è stata duratura e impetuosa: come rottamare gli artefici del successo e aprire le porte alle energie nuove.

Il caso della Cina è paradigmatico. Per 30 anni il regime comunista, con graduali aperture e ideologicamente dolorose abiure all’ortodossia marxista-leninista (a cui tuttora si richiama la Costituzione) ha mietuto successi economici strabilianti. Il modello di crescita (non particolarmente originale) era incentrato su massicci investimenti in infrastrutture e fabbriche.

La Cina maoista era uno dei paesi al mondo col più ampio gap infrastrutturale e minor dotazione di capitale. Alla morte del Grande Timoniere per riattivare lo sviluppo, dopo decenni di ripetuti fallimenti e carestie, occorrevano risorse imponenti per finanziare gli investimenti. Le autorità, volendo a tutti i costi evitare di dipendere da flussi finanziarie esteri, compressero i consumi per attingere dai risparmi privati tali risorse. Dal 1981 al 2010 la quota di consumi privati sul Pil cinese si ridusse dal 53,2% al 34,3%, toccando il minimo assoluto. Oggi si attesta intorno al 38%.

Questo piano generò due decenni di crescita sostenuta, affrancando la Cina dall’indigenza, ma una volta colmato il gap nella dotazione di capitale e infrastrutture, a partire dal nuovo millennio gli incrementi di produttività declinarono. Il modello di sviluppo era diventato progressivamente obsoleto e andava riorientato verso i servizi (sia pubblici che privati) ad alto valore aggiunto e i consumi delle famiglie. Questo è un passaggio critico che raramente è riuscito nella Storia, come ha osservato in più occasioni Michael Pettis, a causa di robusti vincoli politici.

Un modello di sviluppo crea una serie di istituzioni che avvantaggiano in modo sproporzionato gruppi, in settori e territori ben definiti. Cambiare modello implica sovvertire questa struttura economico-istituzionale, modificare i rapporti di potere e quindi suscitare reazioni che sfociano in dissidi lungo tutta la catena politica. In Cina questo scoglio è reso più insidioso da due elementi.

1) Gli squilibri territoriali: il benessere in Cina è concentrato nelle province costiere, ma le zone interne languono e reclamano anch’esse investimenti ed infrastrutture. 2) L’ossessione del regime sulla perdita di controllo. Un’economia ad alto tasso di investimento è più facile da controllare, mentre un’economia di consumi è orientata al mercato.

In sostanza dall’inizio del secolo e ancor più dopo la Grande Recessione del 2008-09 le autorità cinesi per non rallentare il tasso di crescita hanno pervicacemente continuato ad imporre tassi di investimento elevati ma sempre meno produttivi, senza rendersi conto che erano insostenibili. E per tenere in vita la parte obsoleta dell’economia hanno dovuto sussidiarla, gettando alle ortiche i vincoli di bilancio pubblico per privilegiare quelli politici.

Il sintomo più evidente di una tale espansione malsana è il debito pubblico che cresce più velocemente del Pil. In assenza di riforme strutturali il perimetro delle attività inefficienti sussidiate dallo Stato o dal sistema bancario semipubblico si allarga a dismisura, dalle imprese pubbliche a quelle private incluse quelle immobiliari tipo Evergrande.

L’avvento di Xi Jinping nel 2012 ha segnato una ri-accentazione del potere indotta da una diagnosi errata: le cause delle disuguaglianze e degli squilibri sempre più accentuati sono state attribuite agli “eccessi” dell’economia privata e della concorrenza. Di conseguenza, invece di lasciare che fossero i meccanismi di mercato a riorientare l’economia, il vertice del Partito Comunista si è intestardito ad imporre una pianificazione di stampo neo maoista inviando i Commissari del Popolo nelle imprese private a dettare le strategie. I tonfi della Borsa, le fughe di capitali e la crisi immobiliare testimoniano che anche in un regime autoritario il voto di fiducia che conta lo esprime il portafoglio.

L’Articolo scritto a 4 mani con Fabio Scacciavillani e pubblicato su Il Sole 24 Ore

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