Kim spinge la Corea del Sud e il Giappone verso l’atomica

SE PYONGYANG FOSSE IN GRADO DI COLPIRE GLI USA LO SCUDO DI WASHINGTON POTREBBE VENIRE MENO

Si stima che la Corea del Nord custodisca un arsenale di circa 60 ordigni atomici. L’anno scorso Pyongyang ha effettuato quasi 90 lanci di missili in grado di trasportare testate nucleari. I vettori erano quasi tutti a corto o medio raggio. Ma uno, lanciato a novembre 2022, era di tipo nuovo, forse una nuova versione dell’Hwasong-17. I tecnici nordcoreani gli avevano impresso una traiettoria molto ripida. Ma, secondo il ministro della Difesa giapponese, se lanciato con un angolo inferiore, il missile avrebbe potuto percorrere anche 15 mila chilometri e colpire quasi ovunque sul territorio degli Stati Uniti.

Considerando che il vettore può trasportare tre o quattro testate nucleari si tratta di un totale stravolgimento degli assunti su cui si fonda l’equilibrio militare in Asia. Per quanto le difese anti missile dispiegate dal Pentagono possano essere efficaci, anche un solo missile a testata nucleare che sfuggisse alle maglie dei sistemi di intercettazione spalancherebbe le porte dell’inferno. 

Per la Corea del Sud le fiamme di questo inferno sono uno scenario ancor meno remoto. Da quando settant’anni fa l’armistizio stabilì sul 38esimo parallelo il confine tra le due Coree, gli Stati Uniti hanno garantito la difesa dei loro alleati, con un massiccio dispiegamento di uomini e mezzi. In Corea stazionano 28.500 militari statunitensi e circa altri 50mila sono in Giappone. L’impegno di Washington non era mai stato messo in dubbio. Ma il test di novembre e l’approccio prudente adottato da Biden nella guerra scatenata dalla Russia hanno cambiato la percezione dei rischi in Oriente. 

L’Ucraina col Memorandum di Budapest aveva rinunciato nel 1994 alle armi atomiche in cambio di un impegno, sottoscritto da Usa, Russia e Regno Unito, che garantiva la sua integrità territoriale. Con l’annessione della Crimea e l’occupazione del Donbass nel 2014, il Memorandum si è rivelato uno chiffon de papier. Nonostante gli efferati crimini di guerra, il supporto militare dell’Occidente all’Ucraina è centellinato, per timore che Putin sganci ordigni nucleari per evitare il tracollo. A Seul questo atteggiamento della Nato induce a presagire scenari catastrofici. Quale affidamento potrebbe fare la Corea del Sud sul sostegno militare di Washington qualora Kim Jong-un fosse in grado di colpire New York, Los Angeles, o Miami con testate atomiche? E se in futuro in America dovessero prevalere gli istinti isolazionisti, le armi atomiche dispiegate a sud del 38mo parallelo verrebbero azionate contro Pyongyang? E se la Cina tentasse l’invasione di Taiwan e la Corea del Nord venisse aizzata da Pechino ad attaccare il Sud, quale dei due fronti avrebbe priorità per gli Usa? E se la Nato fosse risucchiata nel conflitto con la Russia? 

Di fronte a tali dilemmi a Seul sono salite le voci che propugnano di gettare alle ortiche il trattato di non proliferazione nucleare. Pochi giorni fa al coro si è unito il Presidente Yoon Suk-yeol ventilando l’attivazione di un programma nucleare. I riverberi di questa sfiducia verso gli Stati Uniti lambiscono Tokyo, dove aleggiano umori altrettanto cupi. 

Anche il Giappone si è affidato all’ombrello nucleare americano, ma il riarmo della Cina e i continui lanci di missili nordcoreani hanno sfibrato gli istinti pacifisti. Se la Corea si dotasse dell’atomica, il Sol Levante seguirebbe a ruota. 

E le ripercussioni nella piccola propaggine della massa continentale euroasiatica che chiamiamo Europa? Da 24 febbraio 2022 si (stra)parla pomposamente di difesa comune. Tuttavia a livello politico nessuno ha trovato il coraggio di tirar fuori la testa dalla sabbia e guardare in faccia la realtà. Il mondo è ripiombato nella logica delle politiche di potenza: chi possiede l’atomica impone la sua determinazione e gioca da protagonista. Gli altri si indignano e subiscono. Quindi un’Europa che, dopo 75 anni di ignavia, assumesse un ruolo globale autonomo, non potrebbe fare affidamento sull’esigua force de frappe francese (che Parigi peraltro non intende condividere); o sul sostegno degli Usa, soggetto agli umori di un presidente più attento ai voti dell’Ohio che ai piagnistei di Vilnius. O agli interessi di un’Europa debole e frammentata. 

L’articolo scritto a 4 mani con Fabio Scacciavillani e pubblicato su Il Sole 24 Ore, 24 gennaio 2023

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