Trumpismo in politica estera (I parte). Tra realismo e navigazione a vista: Medio Oriente e G7 di Taormina.

Il presidente Trump, nel suo primo discorso all’estero, a Riad, in Arabia Saudita, per il summit di fine maggio al King Abdulaziz Center, organizzato dal re Salman, con 55 leader dei Paesi arabi e islamici, come base d’intenti della sua politica estera, ha usato il termine “principio di realismo”. Per una definizione che proprio non va giù a molti, compreso a Paul R. Pillar, accademico (di fama) prima a Princeton e poi a Georgetown, nonché scrittore e con una lunga carriera alle spalle nell’intelligence statunitense.
Fermi tutti, ha detto Pillar. Trump, anche rispetto alle due precedenti amministrazioni statunitensi, che in modi diversi hanno comunque posto una certa importanza ai valori liberali democratici in politica estera, non ha preoccupazioni di sorta rispetto ai diritti umani. Ma questo aspetto, a suo avviso, non può definirsi “realismo”.
In estrema sintesi, i realisti considerano il mondo realisticamente, con un occhio di riguardo al pragmatismo del “così com’è”, piuttosto che avventurarsi in azioni rivoluzionarie ispirate a qualche idealismo ma difficilmente attuabili. Però, ugualmente, Trump risulta agli antipodi di questa filosofia, avendo perseguito un percorso, prima imprenditoriale e poi politico, pieno di menzogne, dove, più della realtà vera e propria, è la sua verità personale che cerca – spesso riuscendoci – di vendere al mondo intero.
Oltre a un rispetto fondamentale per la verità e la realtà, il realismo come approccio alla politica estera si sforza di sfruttare gli interessi delle altre nazioni per avanzare parallelamente gli interessi del proprio paese. E anche in questo caso, con Trump, siamo del tutto fuori strada. Infatti, anche al G7 di Taormina, ha scontentato e irritato tutti, con l’unica posizione contraria nell’ambito della lotta al riscaldamento globale e poi con la linea del protezionismo commerciale del mercato interno dicendo agli storici alleati tedeschi che “sono cattivi, molto cattivi”.
E nemmeno a Riad si è trattato di realismo, definendo l’Iran “il male assoluto” e prendendo una drastica posizione pro sunniti contro gli sciiti (che peraltro nessuno gli aveva chiesto e si aspettava con questi toni). Nella successiva visita in Israele non ha fatto nessun riferimento allo Stato palestinese e agli effetti dell’occupazione israeliana, disattendendo tutte le dichiarazioni della campagna elettorale pur di assecondare la volontà dei suoi ospiti. Per giunta, con una palese predisposizione di Trump verso i governi autoritari rispetto a quelli democratici occidentali. Tutto ciò nulla ha a che fare con il realismo, perché queste potenziali intese hanno ben poco di reciprocamente vantaggioso. E secondo Pillar, il comportamento di Trump presidente arriva direttamente dal Trump imprenditore – che lui definisce come un “predatore immobiliare” – quando il suo mondo si divideva tra “vincitori” e “perdenti”, per un dualismo che più lontano dallo spirito realista non si può.
Mentre un vero realista cercherebbe di ribilanciare il rapporto sia con i sunniti che con gli sciiti, per dare stabilità al Medio Oriente con la figura degli Stati Uniti come equilibratore – anche militare – dell’area; un vero realista non trascurerebbe la situazione palestinese; e un vero realista, sempre in quell’area, non si sarebbe mai congratulato con Erdogan per la vittoria al referendum costituzionale dell’aprile 2017, perché comunque siamo di fronte a un autoritarismo che mina la Turchia nelle relazioni internazionali in Medio Oriente e con gli alleati d’Europa.
In conclusione, quello di Trump sembra un “realismo” simile alla navigazione a vista del peggior Berlusconi, nell’attesa che anche The Donald faccia le corna alla Merkel.
 
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