L’Asia sulla bilancia (parte 1). Criticità e punti di forza tra presente e futuro del continente globale.

Michael R. Auslin nel saggio intitolato The End of the Asian Century: War, Stagnation, and the Risks to the World’s Most Dynamic Region, New Haven: Yale University Press, 2017, fa una interessante panoramica sulle tendenze dell’Asia tra presente e futuro. Con una premessa, per troppo tempo gran parte dell’Occidente – America compresa, soprattutto durante la presidenza di Obama – si è concentrato quasi esclusivamente sulla crescita economica del continente asiatico, trascurando invece le grandi tensioni interne, sviluppate su più fronti: dall’economia alla demografia, fino a società, politica e ambito militare.
Tensioni, va ricordato, che in Asia sono alimentate da interessi globali. Basti pensare che gran parte del Medio Oriente è qui, come cinque ex repubbliche sovietiche e l’Afghanistan, oltre a realtà molto differenti tra loro come i subcontinenti Cina e India, il gioiello Singapore, la potenza giapponese e la Corea del Sud e del Nord, oltre al Brunei, ricco di petrolio con più aspetti economici in comune con gli Stati del Golfo Persico rispetto ai partner dell’ASEAN, tipo Indonesia, Malesia, Vietnam e Thailandia. E Paesi più arretrati come Laos, Cambogia e Myanmar. In sintesi, l’eterogeneità è ai massimi.
Non ci resta quindi che procedere un po’ in maniera casuale.
La Cina, nonostante i riflettori di tutto il mondo puntati addosso, ha ancora realtà “misteriose” da decifrare. Per esempio, se da un lato i salari sono aumentati con percentuali in doppia cifra negli ultimi dieci anni, dall’altro lato il sistema economico non è per nulla trasparente, con molte aziende private – soprattutto nell’alta tecnologia e nel settore aerospaziale – che attraverso una complessa catena di holding sono ancora di proprietà statale. Com’è altrettanto opaco il sistema bancario, dove è facile incappare in bilanci fantasiosi e patrimonializzazioni sovrastimate. Ottenere un finanziamento spesso richiede conoscenze politiche. I regolamenti locali e provinciali sono più burocratici di quelli italiani mentre la corruzione resta a livelli altissimi nonostante gli sforzi del presidente Xi Jinping. E spaventa ancora l’atteggiamento poco amichevole nei confronti degli investitori stranieri, cosa ben diversa in Vietnam, Malesia, Indonesia e Filippine.
Con l’amministrazione USA potenzialmente più ostile – come quella annunciata da Trump rispetto a quella di Obama (ma bisognerà vedere nel medio-lungo periodo se i proclami “bellicosi” saranno mantenuti) – il rapporto sino-americano rappresenta una scommessa che può arrecare danni sia all’economia americana sia a quella cinese, ancora non sviluppata a livello sostenibile.
Il focus USA guarda comunque l’Asia con un occhio di riguardo. Difatti il primo incontro tra Trump e un leader straniero è stato proprio con il primo ministro giapponese Shinzo Abe, per una partnership sempre più crescente tra i due Paesi (anche se il Giappone è in fase calante, dopo essere stato leader mondiale per decenni in diversi settori – dall’elettronica ai semiconduttori – oggi è forte solo nell’automotive).
La Corea del Sud, al contrario, vede crescere la sua leadership mondiale nella costruzione navale, dove ha superato il Giappone, nei televisori a schermo piatto, nell’automotive e altro ancora ma, come contrappasso, è troppo legata all’andamento delle sue enormi multinazionali: Samsung su tutte.
Nel complesso, il sud-est asiatico è in crescita, soprattutto il Vietnam, grazie alla popolazione giovane e alle lunghe coste che a livello turistico sono potenzialmente esplosive; anche se, come la Cina, il Vietnam ha una politica “pesante” che incide sul mondo economico con un bagaglio enorme di imprese statali e ugualmente con una relativa mancanza di trasparenza e dati sovrastimati.
L’Indonesia ha criticità davvero importanti: geografia troppo frastagliata, diversità etnica pericolosa, troppa dipendenza da prodotti di base e agricoltura e governo troppo protezionistico. La Malesia sta crescendo ma ha tensioni irrisolte tra la sua ricca minoranza cinese e la maggioranza malay.
Poi c’è la crescita economica dell’India – nonostante la sua burocrazia folle e l’assenza di infrastrutture – che per certi aspetti supera quella cinese e alcuni suoi principali distretti economici sono d’eccellenza come Bangalore (aerospaziale), Chennai (la Detroit indiana) e Mumbai (con l’industria cinematografica di “Bollywood” che per numero di persone impiegate e film prodotti è già oggi leader di mercato).
Insomma, il quadro è unico al mondo. Approfondiamo – e concludiamo – il discorso nel prossimo FdS.
 
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