Medio Oriente, 4 milioni di morti e 6 trilioni di dollari per cosa? (seconda parte) Passato, presente e futuro di una terra senza pace dove gli USA navigano a vista.

Continuando il discorso del Forchielli della Sera del 30 maggio, si diceva che dal 1990 le guerre degli USA tra Asia occidentale e Nord Africa, da un lato hanno registrato 4 milioni di musulmani uccisi come conseguenza diretta o indiretta delle politiche e degli interventi americani, innescando per giunta il terrorismo jihadista in Occidente. Dall’altro lato sappiamo che sono costate almeno 6 trilioni di dollari!
Una cifra enorme che non riflette solo i costi di combattimento – armi, mezzi, rifornimenti, eccetera – ma anche quelli a lungo termine per l’assistenza sanitaria ai reduci di Iraq e Afghanistan, considerando che per i veterani della Seconda guerra mondiale il picco dei costi è arrivato nel 1986 mentre quelli dei veterinari del Vietnam sono tutt’oggi ancora in salita!
Perciò, dal 1990: 4 milioni di musulmani uccisi e 6 trilioni di dollari spesi dagli USA, ecco che per Chas W. Freeman è giunta l’ora di rispondere a queste domande sulle guerre tra Asia occidentale e Nord Africa: quando e come si concluderanno, quali sono gli obiettivi dell’America e se questi obiettivi sono fattibili.
Intanto le rivalità regionali hanno in qualche modo eroso la determinazione degli Stati arabi di mantenere le distanze da Israele, per una collaborazione di intelligence anti-iraniana sempre più palese, che ha portato alla cooperazione tra Israele e Arabia Saudita per manipolare la politica degli USA di perseguire un riavvicinamento con l’Iran. Anche se l’atteggiamento israeliano – una fermezza che trascende nella crudeltà – verso le popolazioni arabe e l’incessante propaganda anti-Islam non potranno certamente portare relazioni normali con la maggior parte dei Paesi musulmani.
L’America, in Medio Oriente, come detto, è abituata a “tutto e di più”, dalla cacciata di Mossadeq in Iran nel 1953 al rovesciamento di Hamas in Palestina nel 2006, fino all’appoggio del governo dei Fratelli Musulmani in Egitto nel 2013. La Russia, nel frattempo, è tornata ad avere una certa influenza nell’area, attraverso un’abile diplomazia, sostenuta da una distribuzione molto limitata delle sue forze armate in Siria. L’intervento militare russo ha poi fatto causa comune con Iran ed Hezbollah, nonché con il regime sciita di Baghdad, rinvigorendo le forze armate del governo siriano. Sostenendo Assad con una precisa volontà. Mosca vuole mostrare a tutto il Medio Oriente che, a differenza degli Stati Uniti (che hanno abbandonato anche Hosni Mubarak in Egitto), chi sceglie la Russia come partner può contare sulla sua fedeltà.
Anche a fronte di ciò, come si comporteranno gli USA nel futuro? L’obiettivo di far fare la pace tra israeliani e palestinesi appare donchisciottesco. Dire, come ha fatto Trump a Riad, che l’Iran non avrà mai la bomba atomica è un modo per disinnescare una gara al nucleare in Medio Oriente, affrontando l’ascesa dell’influenza iraniana nella regione e le conseguenze della crescente rivalità tra Iran, Arabia Saudita e altri Paesi del Golfo.
In ogni caso, il Medio Oriente, per gli USA, è vitale. Quindi deve mantenere una centralità nel ruolo di potenza globale (che come abbiamo visto dal giro d’affari messo in moto prevede il non trascurabile ruolo di commerciante di armi e di “incentivatore” per i business dell’industria americana sul territorio), con un occhio che deve essere sempre più attento – anzi, per meglio dire, finalmente attento – alla valutazione di costi e benefici nei vari rapporti con i poteri locali, cercando di migliorare le relazioni con l’Iran e gestendo il rapporto di forza con Russia e Turchia negli affari della regione.
Dinanzi a tutto ciò la minaccia islamista radicale ha ormai un ruolo primario e peraltro, nei numeri, la vittima principale del terrore jihadista è proprio la stessa popolazione musulmana non estremista. Per una problematica che si può sconfiggere solo attraverso la fattiva collaborazione dei vertici della società musulmana, sia sciita che sunnita, oltre che grazie a un reale coordinamento tra USA, Russia, Cina, UE e India. E difficilmente senza una leadership americana si può pensare che un tale coordinamento possa realizzarsi.
Drammaticamente, conclude Freeman, queste strategie politiche sono nelle mani di Trump e della sua amministrazione. Io però non sono così pessimista come il mio amico americano. Non perché nutra qualche speranza in The Donald, anzi, proprio per la ragione opposta. Ero spaventato dalle sue continue sparate per la campagna presidenziale. Adesso che sta facendo più o meno tutto l’opposto, sono persuaso che poco cambierà e quindi che non farà troppi danni.

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