Oro e ferro, la lunga strada per metterli in comune

«Oro e ferro», la moneta e la difesa, si sono configurati per millenni come i due pilastri di base di ogni costruzione statale. Soltanto in tempi relativamente recenti la nascita della Unione Europea ha radicalmente mutato i termini della partita, sottraendo alla responsabilità degli Stati membri la gestione di una moneta divenuta comune, ma lasciando quasi integre le loro individuali competenze nell’altro settore.
Ne è risultata ovviamente una costruzione molto sbilanciata, il cui squilibrio diviene tra l’altro tanto più evidente quanto più le capacità militari si affermano come gli insostituibili strumenti principe della politica estera di paesi costretti, loro malgrado, ad affrontare tempi e scenari sempre più agitati.
Non è quindi un caso il fatto che, allorché si parla della crisi dell’Unione tentando di identificare le strade che le consentirebbero di uscire dall’attuale impasse, una delle prime proposte che vengono avanzate sia sempre quella di dar vita ad una Difesa comune. Dopo l’oro quindi anche il ferro cesserebbe di essere oggetto del monopolio dei singoli Stati, divenendo patrimonio condiviso di tutti i membri dell’Ue.
Almeno in teoria la proposta è affascinante, considerato come essa si configuri quale un vero e proprio balzo in avanti, probabilmente irreversibile, nel processo di costruzione unitaria. E’ importante però nel contempo cercare di non indossare anzitempo occhiali interamente colorati in rosa minimizzando le forti difficoltà che sarebbe necessario superare per porla in atto. Le stesse difficoltà, del resto, che ci hanno impedito nel passato di compiere rilevanti progressi in questo settore, e ciò nonostante il fatto che il problema sia stato affrontato più volte con spirito costruttivo e con grandi speranze che poi il tempo e la pratica si sono regolarmente incaricati di dissolvere.
Per poter dar vita ad una Difesa Europea noi abbiamo infatti almeno quattro problemi maggiori da risolvere. Il primo consiste nell’assenza di una politica estera comune della Unione. Pur essendo stata auspicata da tutti i trattati che hanno contrassegnato la difficile crescita della Ue essa non ha infatti compiuto molti passi avanti ed il maggior successo conseguito in questo ambito in tempi recenti, vale a dire la creazione di un responsabile comunitario del settore, è stato più che abbondantemente controbilanciato dalla deriva in senso nazionalistico che ha coinvolto pressoché tutti i maggiori Stati membri, trovando nella Brexit la propria massima espressione. L’allargamento della membership che ha fatto seguito alla caduta del Muro di Berlino – probabilmente troppo esteso, troppo frettoloso e che non ha tenuto conto a sufficienza delle caratteristiche particolari di ciascuno dei candidati – ha diversificato inoltre oltre misura i problemi di politica estera da affrontare, rendendo nel contempo sempre più difficile il funzionamento di un organismo basato sul consenso e ancora privo di un reale «Grande Fratello», anche se la Germania marcia rapidamente in quella direzione.
Il secondo problema deriva dall’esistenza di un’altra organizzazione internazionale, la Nato, che si presenta ormai da decenni come l’incontrastata ed efficace monopolista del mercato della difesa e della sicurezza occidentale. Essa è oltretutto guidata da un socio di maggioranza capace di imporre la propria volontà ogni qualvolta ciò risulti necessario con il risultato che l’Alleanza Atlantica appare in grado di operare con una tempestività sconosciuta all’Unione, nonostante entrambe si basino sulla legge del collettivo consenso. Almeno in teoria, la Nato e gli strumenti di cui l’Ue già dispone dopo gli accordi di Saint-Malo fra la Francia ed il Regno Unito ed i successivi sviluppi, dovrebbero poi essere fra loro complementari. Nella realtà, con una politica accorta portata avanti senza scrupoli e basata soprattutto sullo slogan «evitare costose duplicazioni», l’Alleanza è però riuscita a confinare l’Unione in un ruolo accessorio e saltuario, impedendole altresì di evolvere verso una struttura di difesa coerente e capace, se del caso, di operare in maniera autonoma.
Il terzo ostacolo deriva poi dalla presenza in Europa di industrie per la difesa che, al di là di tutti gli accordi di coproduzione e del tentativo di razionalizzarne l’output compiuto anni fa creando in ambito Unione una Agenzia Europea degli Armamenti (Eda), sono rimaste essenzialmente nazionali ed appaiono, almeno nei Paesi maggiori, centrate su uno o due campioni nazionali cui i complessi minori fungono da contorno. In tale quadro la creazione di un vero e proprio strumento di difesa europeo, con tutte le razionalizzazioni e le economie di scala che ciò comporterebbe, sarebbe certamente una vera e propria manna per i bilanci nazionali della difesa, rivelandosi però nel contempo una rovinosa contrazione del fatturato per le industrie del settore. Fra tutte la più colpita risulterebbe probabilmente l’industria italiana, meno forte di quella francese e di quella tedesca e nel contempo centrata, per scelte pregresse, principalmente su cooperazioni con gli Stati Uniti ed il Regno Unito.
Da non sottovalutare infine, e questo è l’ultimo punto, la difficoltà di integrare nel sistema la componente nucleare costituita dalla «Force de frappe» francese, ultima risorsa atomica rimasta all’Europa dopo la secessione del Regno Unito. Dai tempi di De Gaulle e dei «quattro cavalieri dell’Apocalisse», come erano chiamati i generali francesi che elaborarono per primi la dottrina di impiego nucleare, un assioma indiscusso sottolinea come il nucleare non sia assolutamente condivisibile («le nucleaire ne se partage pas!»). In compenso però elaborazioni successive hanno poi evidenziato come, se non il nucleare, per lo meno la dissuasione indotta dal nucleare risulti in pratica condivisibile. Ed è su questo concetto che occorrerebbe probabilmente innestarsi ed elaborare se vogliamo progredire.
Tutto questo detto vi è però da sottolineare come, anche in presenza di forti e non eludibili difficoltà, progredire in direzione di una difesa comune risulti egualmente possibile qualora esista l’impulso di una volontà politica forte. Col tempo la Germania potrebbe infatti crescere e, prendendo coscienza di se stessa, assumere in ambito europeo lo stesso ruolo che gli Stati Uniti svolgono in sede Nato. All’Agenzia per gli armamenti potrebbero essere affidati poteri di razionalizzazione del contesto produttivo generale, cercando magari di compensare con una maggiore aggressività sul mercato internazionale ciò che le nostre industrie perderebbero su quello europeo. La dottrina del nucleare francese, come già indicato, dovrebbe nel contempo esser fatta evolvere verso il concetto di «dissuasione condivisa».
Resta a questo punto l’ostacolo di base, vale a dire l’assenza di una comune politica estera di riferimento. E’ quindi soprattutto in quella direzione che occorre lavorare. Nell’attesa del risultato si può comunque fare tutto il possibile per mettere in piedi se non «una difesa comune» perlomeno «uno strumento di difesa comune» composto da elementi modulari quanto più possibile multinazionali che possano essere messi insieme e siano in grado di funzionare congiuntamente allorché se ne presenterà la necessità.
Dovremmo quindi intensificare e portare alle estreme logiche conseguenze ciò che già facciamo da quando, dopo Saint-Malo, ci incamminammo per questa strada. Da allora molto cammino è stato già fatto, come dimostrano le decine di operazioni che coinvolgono forze militari decise e guidate dall’Unione nel corso degli anni più recenti. Ma non illudiamoci: la strada da percorrere resta ciononostante ancora molto lunga.
 
Articolo pubblicato su La Stampa, 26.05.2017

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