La crisi dell’Occidente e il fardello dell’uomo giallo


Nell’epoca appena iniziata, la storia sarà fatta principalmente da culture molto diverse dalla nostra. Siamo disposti a esserne colonizzati?
C’è un fenomeno di cui non ci stiamo rendendo pienamente conto, che procede con apparente lentezza ma è destinato a cambiare radicalmente la nostra vita nel medio termine. Sempre che nell’immediato futuro il ritmo di tale mutamento non acceleri, riducendo drasticamente il tempo per prepararci a far fronte alla nuova situazione. E ad accettarla, poiché altro non potremo fare.
Abituati da oltre 500 anni a un mondo dominato prima dall’Europa e poi da quell’America che in fondo non è altro che un regno romano barbarico europeo, siamo destinati a entrare in un’epoca in cui i giganti che faranno la storia avranno un’altra origine e apparterranno ad altre culture. Mentre noi rischiamo di ridurci a viverla e a subirla, anche se non è affatto detto che troveremo la cosa particolarmente gradevole.
Per noi latini accettare questa nuova situazione risulterà forse più facile considerato come, a eccezione della Francia, la nostra spinta espansiva si fosse già spenta da tempo. L’impresa risulterà ben più ardua per i germanici e soprattutto per gli anglosassoni, avvezzi a portare sin dai primi dell’Ottocento ciò che Kipling chiamava “il fardello dell’uomo bianco”. Un fardello oggettivamente pesante, ma che veniva abbondantemente controbilanciato dai vantaggi di un simile onere.
Anche se non esiste ancora nei nostri paesi una reale presa di coscienza, né del fenomeno né delle sue conseguenze, si cominciano a produrre le prime reazioni di massa a quanto l’inconscio collettivo non ha potuto evitare di registrare. Si tratta comunque nella maggior parte dei casi di reazioni immediate, motivate più da un istintivo senso di rigetto piuttosto che da un ragionamento.
Così gli Stati Uniti, leader indiscussi dell’Occidente, centrano la loro reazione su una colossale e rischiosissima scommessa che dovrebbe permetter loro di rimanere a tempo indefinito la prima potenza del mondo. In pari tempo il Regno Unito si rifugia nei tempi andati, nell’illusione che rigettare con il Brexit l’Unione Europea e tutto ciò che il cammino comunitario ha comportato nel corso degli ultimi cinquanta anni possa automaticamente riportarlo alle ormai mitizzate glorie dell’Impero. Nell’Europa orientale e nordica invece si alzano muri, mossi dall’idea che un dito infilato nel foro sia realmente sufficiente a fermare l’acqua della diga. Ispirati dalla Germania, tutti quanti paghiamo perché qualcun altro chiuda la rotta balcanica dei migranti, proprio come faceva l’Impero Bizantino all’apice della sua decadenza.
Come se non bastasse, si moltiplicano in questo quadro le aspirazioni a fruire di maggiori autonomie regionali o addirittura a conseguire l’indipendenza; un fenomeno che coinvolge territori quali Scozia, Irlanda del Nord, Corsica, Catalogna, Lombardia e Veneto, Paese Basco…

Carta di Laura Canali – 2017
Una reazione che ricorda molto quella della seconda metà del Quattrocento, allorché il potere e la ricchezza a esso connessa lasciarono l’Italia e le Fiandre – che continuavano a credere nelle “piccole patrie” – per passare a Stati nazionali più estesi e organizzati in maniera più adatta ai tempi.
Mentre noi ci esauriamo in queste involuzioni, la Cina cresce. Proprio alle nostre frontiere, considerato come la sua influenza abbia ormai quasi soppiantato quella europea in Africa e come, dopo l’acquisto del Porto del Pireo, le manovre congiunte con altre marine nel bacino, la partecipazione alle operazioni di pace Onu in Libano, la Repubblica Popolare possa essere considerata per molti versi anche una potenza mediterranea.
Il suo progetto “One Road , One Belt” relativo alla riapertura delle vie della seta ha evidenziato la sua inclinazione a ragionare in termini strategici globali e a lunga scadenza. La capacità di attrazione cinese viene per di più esaltata dalla sua capacità di offrire a tutti i paesi ancora alle prese con problemi di sviluppo un modello forse più criticabile di quelli delle nostre democrazie, ma che di sicuro appare molto più efficace.
Modelli che noi ci ostiniamo a proclamare perfetti, ma che sono rimasti ancorati a tempi passati: non corrispondono più a una realtà dinamica come quella attuale; non considerano come in un mondo segnato da popolazione crescente e risorse calanti l’interesse collettivo debba sempre prevalere su quello privato; non sono più in condizione di realizzare grandi progetti. Modelli che, nel pullulare delle piccole diatribe politiche, stanno perdendo la visione e tradendo i valori che un tempo li animavano.
La Cina non è l’unica ondata che proviene dalle sponde asiatiche. Dietro di lei, separate da Pechino da una rivalità che almeno per il momento costituisce stimolo per tutti i protagonisti, incalzano l’India, il Giappone e parecchie giovani tigri minori. Dall’altro lato dell’Atlantico cresce nel frattempo il Brasile, impegnato sulla strada del completo sviluppo quasi in un ritmo di samba che alterna due passi avanti a un passo indietro.
Ma è soprattutto vicino a noi che dobbiamo guardare.
In primo luogo a quel mondo arabo che sta vivendo un periodo travagliato, in particolare nella sua parte sunnita, ma che potrebbe costituire il prologo di una unificazione. Per il momento i candidati alla leadership dell’area restano tre: Arabia Saudita, Turchia ed Egitto, ma il loro contrasto potrebbe arrivare più rapidamente del previsto a una conclusione che ci costringerebbe a fronteggiare un gigante installato sulle altre sponde mediterranee. Più a sud cresce l’Africa nera, sotto l’incontenibile spinta di una demografa galoppante che dovrebbe portarla a raddoppiare entro il 2050 il numero dei suoi abitanti.
Sono tutte culture molto diverse dalla nostra ma destinate a esercitare nei prossimi anni un soft (forse anche hard) power sempre crescente anche sotto i nostri cieli.
Siamo disposti ad accettarle e condividerle, almeno parzialmente? Una domanda la cui risposta non può che essere positiva, considerato anche quale ancora sia – almeno attualmente – il nostro livello di apertura e tolleranza.
Siamo invece disposti a esserne eventualmente “colonizzati”, come avviene automaticamente ogni volta che poteri maggiori divengono dominanti in un’area in forte declino? Qui le cose si fanno molto più dubbie e la risposta più difficile, per motivi insieme storici e di orgoglio ma in cui anche razza, religione e una moltitudine di altri fattori giocano il proprio ruolo.
Chiediamoci quindi con serietà come risponderemmo a quest’ultima domanda. E facciamolo prima che svanisca definitivamente la possibilità di trasformare l’Unione Europea in un gigante che irradi hard e soft power anziché limitarsi a subire quello degli altri; ovviamente continuando a ricercare sempre quella fertilizzazione reciproca destinata a risultare benefica per tutte le parti.
Altrimenti, “il fardello dell’uomo bianco” di ottocentesca e kiplinghiana memoria si trasformerà in breve tempo nel “fardello dell’uomo giallo” o nel “fardello dell’uomo nero”!
 
Articolo scritto dal Gen. Giuseppe Cucchi e pubblicato su Limes Online – Rivista Italiana di Geopolitica, 07/11/2017

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