Uomo e robot, una faccia, una razza? (II parte)

Tra scienza, fantascienza e obsolescenza
Dal MIT in arrivo l’apprendimento automatico che consente ai robot di imitare sempre di più i nostri gesti
 
Torniamo al MIT, il Massachusetts Institute of Technology, che sta sperimentando il DON (Dense object nets), un nuovo sistema di apprendimento automatico che consente ai robot di identificare gli oggetti e capire come meglio manipolarli senza il processo della ripetizione, ossia senza imparare dai propri errori, ma, come l’uomo, interagendo al meglio con gli oggetti anche se non li ha mai visti prima. E che come abbiamo visto martedì scorso, se in una catena di montaggio la semplificazione e la programmazione consentono un ampio utilizzo soddisfacente dei robot, nella vita reale siamo ancora lontani.
Comunque si respira ottimismo sul medio-lungo periodo perché i segnali sono di miglioramento sia per la visione artificiale e sia per le reti neurali, comprese quelle addestrate alle verifiche CAPTCHA (acronimo inglese che sta per “Completely Automated Public Turing-test-to-tell Computers and Humans Apart”) e che serve per determinare se l’utente è un umano – almeno biologicamente parlando! – o un computer (un bot, nello specifico). Anche se, sempre Singularity, fa notare la poca democraticità di questo sviluppo tecnologico.
Infatti servono enormi quantità di dati per innovare l’apprendimento automatico, utilizzando peraltro un numero considerevole di persone per etichettare, catalogare e anche setacciare tali grandezze di dati. Quindi se sei Google puoi fare in modo che migliaia di inconsapevoli volontari etichettino le tue immagini con CAPTCHA. Mentre se sei IBM puoi assumere personale per etichettarle manualmente. Invece se sei una startup che sta testando qualcosa di nuovo, ti sarà quasi impossibile competere con la potenza dei colossi appena citati.
E qui entra in gioco l’aspetto rivoluzionario della ricerca del CSAIL (Computer Science and Artificial Intelligence Laboratory) del MIT con il DON (sì, lo so, tutti questi acronimi sembrano un gioco di parole a chi spara la supercazzola più grossa). Ma restando seri, il suo nuovo sistema è in grado di allenare i robot nell’affrontare situazioni nuove e inaspettate attraverso l’evoluzione dei sistemi di apprendimento automatico “self-supervised”, ovvero che non hanno bisogno degli esseri umani per il “lavoro sporco” di etichettare, catalogare e anche setacciare tali grandezze di dati.
Nello specifico, il robot prima ispeziona il nuovo oggetto da più angolazioni, crea un’immagine 3D dell’oggetto che lo identifica per una particolare caratteristica e lo “mappa” con punti griglia e sottosezioni. Quindi cambia l’approccio che con il sistema DON e le sue mappe spaziali consente la gestione di una gamma di oggetti più ampia rispetto all’apprendimento automatico tradizionale, con i suoi relativi algoritmi.
In pratica, tutto ciò consente al robot e al suo braccio di meglio identificare una tazza, trovare la maniglia e raccogliere la tazza in modo appropriato. E, mossa non semplice, di individuare tale tazza e gestire la sua presa anche tra un gruppo di tazze simili.
In conclusione, il mondo della robotica procede nella sua naturale evoluzione e nonostante il mio amore per l’innovazione, mi inquietano due aspetti. Il primo è pensare che al posto delle mie belle e dolcissime badanti thailandesi, il caffè me lo possa portare un freddo robot maggiordomo (che tra l’altro mi costerà sicuramente di più). Il secondo aspetto è ben più serio e generale del primo. Immaginare concretamente che lo sviluppo tecnologico tra qualche decennio porterà un’automazione generalizzata, dove robot ed esseri umani sapranno eseguire in maniera pressoché identica gli stessi compiti, apre scenari da pelle d’oca se non sapremo – noi umani – gestire la questione con intelligenza, buon senso e non pensando soltanto al business. Con il rischio che un giorno, come in tanti film di fantascienza, la famosa obsolescenza delle macchine non riguarderà la razza umana.
 
 

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