Trump ed Obama, mezzi diversi ma comunanza di obiettivo

Il cambiamento che si è verificato nella politica americana con il recente passaggio del bastone di comando – e della valigetta nucleare! – dal Presidente Obama al Presidente Trump non potrebbe, almeno apparentemente, risultare più netto.
In breve tempo il posto che gli Stati Uniti tradizionalmente riservavano alla accoglienza ed alla integrazione del “diverso” e’ stato infatti preso dalla intolleranza mentre, a dispetto di ogni teoria economica, il protezionismo si sta affermando sempre di più sul libero mercato e crescono nel contempo i vincoli imposti dagli USA ai movimenti di uomini, di lavoro e di capitale.
Persino lo stile dei due Presidenti appare radicalmente diverso: ciò che ieri appariva sussurrato e suadente con Obama, si impone oggi come urlato e polemico con Trump.
Ciò che più spaventa e’ altresì il ritmo impresso a questo passaggio, un ritmo fortemente accelerato in cui politica interna e politica estera si confondono l’una con l’altra in un inestricabile groviglio mentre il neo eletto ed il suo staff tessono la tela che dovrebbe tradurre in termini perentoriamente esecutivi le promesse fatte dal Presidente in campagna elettorale.
È un gioco al massacro da cui nulla sembra destinato a salvarsi, ne ‘ gli accordi commerciali che avrebbero dovuto riunire in due articolate reti guidate dagli Stati Uniti tanto l’area atlantica quanto quella pacifica, né la consolidata convivenza di Washington con l’America latina ed in particolare col Messico, né l’equilibrio faticosamente raggiunto del modus vivendi fra gli USA e la Cina. Persino le più antiche e consolidate fra le icone, come ad esempio il legame transatlantico fra America ed Europa – nonché la NATO che di tale legame è il più espressivo simbolo – sembrano ora non essere del tutto al sicuro di fronte alla furia innovatrice di Mister President.
Da rimarcare però come, al di la’ di tutto queste differenze, i programmi di Obama e di Trump coincidano sul punto più importante , vale a dire sull’obiettivo che ciascuno dei due Presidenti si ripropone, o riproponeva, di conseguire.
Quali fossero le idee di Obama a riguardo ci era stato chiarito nella più precisa delle maniere un paio di anni fa allorché, parlando ai cadetti di West Point, il Presidente aveva sottolineato come non avrebbe mai permesso che gli USA scendessero al secondo posto nella classifica delle Nazioni.
Trump, dal canto suo , ci ha invece ripetuto sino alla nausea quella idea che è diventata lo slogan vincente della sua campagna: “Make America great again !”, vale a dire “Rendi di nuovo grande l’America!”.
L’obiettivo di Trump non differisce dunque affatto da quello di Obama. Entrambi vogliono una America che continui a primeggiare esercitando su tutto il mondo una leadership che deve rimanere incontrastata. Tradotto in termini elementari ciò significa da un lato che nessuno dei due Presidenti era, ed è, disposto ad accettare che gli Stati Uniti si avviino sul viale del tramonto, divenendo così ” a declining power”, un processo che comunque parecchi indizi indicherebbero come già iniziato da un certo tempo.
Ne deriva una disponibilità presidenziale a qualsiasi iniziativa che possa in un modo o nell’altro rafforzare la posizione del paese. D’altro canto però l’assoluta mancanza di disponibilità dell’opinione pubblica ad accettare una eventuale discesa al secondo od al terzo posto comporta anche un risvolto altamente negativo destinato a concretizzarsi nelle varie azioni di contenimento che i Presidenti sarebbero pronti a mettere eventualmente in opera nei riguardi dei loro competitori, qualora la situazione lo richiedesse.
Obama si è mosso in questo senso con una certa abilità, controllando tra l’altro sempre che la mano di ferro rimanesse perennemente confinata all’interno di un guanto di velluto.
Rientrano nell’ambito della sua azione i tentativi di favorire la firma dei due accordi commerciali TransPacifico e TransAtlantico, che avrebbero sancito una volta ratificati la permanenza di Unione Europea da un lato, Cina , India e Giappone dall’altro nel ruolo di fratelli istituzionalmente minori. Sul piano strategico inoltre la tensione nel Mar Cinese Meridionale gli ha fornito una ottima scusa per rinforzare il contenimento della Cina, il maggiore fra i candidati ad una possibile successione. E ciò senza per questo apparire aggressivo ma guadagnandosi persino la gratitudine degli altri paesi dell’area! Con l’Unione Europea il compito e’ stato tutt’altro che difficile, visto che per impedirle di crescere ulteriormente e’ bastato giocare sulle sue tensioni interne. Nulla di particolarmente vistoso: un giorno una spinta a favore di una impossibile adesione della Turchia all’Unione, un altro una critica apparentemente innocente alla leadership tedesca, un altro un appoggio abbastanza palese ai partiti meno europeisti in periodo di elezioni e via di questo passo. Anche la nuova strategia militare adottata ormai da qualche anno dal Presidente Obama nell’area Mediterranea ha giocato in senso divisivo introducendo fra gli alleati europei, già molto lontani gli uni dagli altri, l’ulteriore elemento di rottura derivante da un accresciuto onere di sicurezza da gestire in proprio e non più all’ombra del Grande Fratello.
Parimenti divisiva e’ risultata anche la sua politica nei riguardi di quel mondo arabo non più tanto indispensabile quanto prima da quando si è scoperto lo shale gas. Anche qui e’ infatti probabilmente risultata premiante la considerazione di come in fondo non rientrasse negli interessi americani ilfatto che si potesse consolidare in tutto il mondo sunnita la leadership di un solo paese – Turchia Egitto od Arabia Saudita che esso fosse – facendolo crescere al punto da divenire un rivale preoccupante.
Gli Stati Uniti hanno così limitato considerevolmente la portata dei loro interventi nelle varie aree destabilizzate del Nord Africa e del Medio Oriente arrivando addirittura a far sorgere in alcuni momenti il sospetto che il loro scopo fosse più quello di prolungare i conflitti che quello di chiuderli.
Nel complesso quindi una politica ben riuscita , anche se non del tutto priva di battute di arresto . La prima, meno importante concerne , la Brexit . Con la uscita del Regno Unito dalla UE gli USA perdono infatti il loro cavallo di Troia in Europa e quindi la loro possibilità di influenzarne l’evoluzione dal di dentro. È vero che Londra e’ ancora membro della NATO, ma anche in tale ambito la sua capacita di ritardare o bloccare come fatto sino ad ora la nascita di un vero strumento di sicurezza e difesa europea appare alquanto attenuata. La seconda, più grave, riguarda invece la Russia che anziché limitarsi a ricoprire il ruolo di babau per l’est europeo in cui Washington la avrebbe volentieri confinata ha invece reagito con una abilità da raffinato giocatore di scacchi riuscendo a recuperare buona parte del prestigio perduto e ad imporsi come un inevitabile coprotagonista.
Sin qui la grandezza ed i limiti del Presidente Obama. Trump, come già detto, appare ora ineluttabilmente destinato a seguire la medesima strada , anche se con modi molto differenti. Nel settore della politica estera ciò è apparso chiaro sin dal primo minuto.
tI contatti pressoché immediati del nuovo Presidente con i governanti del Giappone e di Taiwan e le minacce di interventi di altro tipo nel Mar Cinese Meridionale hanno infatti subito rilanciato l’idea di un contenimento rinforzato della Cina. Paradossalmente, come hanno fatto notare parecchi commentatori, fra Pechino e Washington e’ in questo momento la prima che parla con gli accenti della “potenza ragionevole” mentre è la seconda che si comporta da “potenza rivoluzionaria”.
L’Unione Europea ha avuto subito di che riflettere con il rilancio della relazione particolare fra USA ed UK, nonché con le accuse alla Germania di gestire i cambi dell’euro come strumento di divisione.
Il mondo islamico e’ stato gratificato nel frattempo con promesse di un intervento anti ISIS più deciso, che pero’ sino ad ora non si è concretizzato ed è stato per contro bilanciato da un via libera a Nethan
yau per ulteriori insediamenti di coloni nonché dal promesso riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele. A ciò si aggiungono poi le misure restrittive all’immigrazione islamica negli Stati Uniti che tante polemiche hanno suscitato.
Nel contesto generale resta pero’ aperta quella che in un certo senso si può considerare come la sfida alla quadratura del cerchio. Da un lato occorre infatti migliorare i rapporti con la Russia, come Trump ha più volte dichiarato di voler fare, mentre dall’altro il Presidente e’ condannato a far di tutto per preservare l’adorante fedeltà agli Stati Uniti dei paesi dell’est europeo. Quella “nuova Europa ” di cui Trump ha bisogno per contrapporla alla “vecchia”, pur aprendo una nuova era nella storia delle reazioni con Mosca.
Molto poco di cambiato dunque, a parte lo stile della azione nonché i mezzi da usare. Forse quello che è più mutato, come risulta maggiormente chiaro nel momento in cui dalla politica estera scivoliamo alla politica interna ed alla economia e’ invece l’atteggiamento complessivo del paese e per esso del suo Presidente. Gli Stati Uniti di Obama erano ancora un paese all’attacco, una potenza imperiale che nella maggior parte dei settori manteneva l’iniziativa. Quelli di Trump si stanno invece richiudendo a riccio su se stessi, alzano muri, inventano barriere. In termini militari stanno passando dalla offensiva alla difensiva, mantenendo pero’ viva l’illusione di potersi chiudere nella “fortezza America” restando comunque in pieno controllo di tutto ciò che avviene nel mondo. Il fenomeno è soltanto all’inizio ma la tendenza traspare già con evidente chiarezza….
…….il guaio è che nessun Vallo di Adriano, nessuna Grande Muraglia, nessuna Linea Maginot ha mai retto molto a lungo!!!

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