Migrazioni, cultura e territorio: il cammino verso la Nazione indiana

Scritto da Sauro Mezzetti, pubblicato su “AREL la rivista” | STRANIERO numero 2/2019  

Le identità dalle origini al Medioevo

L’India è una nazione composita con una grande diversità di lingue, alfabeti, religioni e gruppi etnici. Una grande famiglia di popoli – come ebbe a definirla Carlo Cattaneo – che conserva le sue leggi e i suoi costumi «quantunque sia da più secoli penetrata per ogni parte da genti straniere, e annodata seco loro a ineluttabile convivenza»1.

L’India ha una grande varietà linguistica, religiosa ed etnografica che secondo la narrativa prevalente è il frutto di varie ondate di migrazioni. La maggior parte della popolazione dell’India centro-settentrionale sarebbe di origine ariana o indo-europea, insediatasi in varie fasi a partire dal XV secolo a.C. Nel sud invece, le popolazioni sarebbero di origine dravidica, un ceppo forse proveniente dall’Asia occidentale e insediatosi tra il terzo e il quarto millennio a.C. Solamente l’8 per cento della popolazione indiana non sarebbe il frutto di migrazioni preistoriche, si tratta degli adivasi, i primi venuti, le cosiddette popolazioni tribali appartenenti a vari ceppi: proto-australoide, negrito, tibeto-mongolo, armeno caucasico.

A questa narrazione che è la più ricorrente nel mondo accademico se ne contrappone un’altra, soprattutto da parte del nazionalismo hindu, che vede invece l’India come origine dei popoli e delle migrazioni indo-europee e la differenza tra ariani e dravidici tra nord e sud una semplice differenza linguistica.

Si tratta di una distinzione che ha importanza non solo per il dibattito antropologico o linguistico, ma anche per quello politico, poiché strettamente legata alla definizione delle identità nazionali e regionali.

A prescindere da quanto avvenuto in tempi remoti, l’India è stata comunque teatro di immigrazioni anche in tempi storici. Tra il terzo secolo a.C. e il quinto secolo d.C. vi sono state immigrazioni e sono sorti regni indo-sciti, greco-battriani, iranici e poi, dopo l’avvento dell’Islam, si sono inseriti elementi afghani, turchi e persiani.

La definizione di “indiano” e “straniero” è quindi sempre stata mobile, sia dal punto di vista culturale, che da quello territoriale, visto che, nei tempi antichi, anche i regni e gli imperi più grandi non hanno mai coperto tutta l’India.

È sempre esistita comunque, come testimoniato nella letteratura e nell’epica, un’idea e un ideale del monarca universale, il cakravartim, che governava l’India intera.

Il termine sanscrito più noto per indicare uno straniero è mleccha, che ha conosciuto diverse sfumature nel corso del tempo, talvolta spregiative. Non è chiara la sua origine, che appare sia nella letteratura brahmanica sia, con qualche variante, in quella buddhista. Probabilmente significa “colui che parla indistintamente” che si colloca al di fuori del retaggio culturale e linguistico del sanscrito. Anche nella Grecia, i barbari, oi barbaroi, erano coloro che non parlavano greco ma parlavano con suoni incomprensibili.

C’è, però, una paradossale differenza nell’India antica. Mentre in Grecia è una fiorente civiltà agricola e urbana a definire i barbari, in India sarebbe una civiltà pastorale che ha invaso il territorio a chiamare barbari la civiltà urbana che la precede2. L’India infatti ha una delle più antiche civiltà urbane del mondo, coeva con quella sumerica, che avrebbe conosciuto una notevole decadenza tra il secondo e il terzo millennio a.C. prima di essere invasa – secondo la vulgata accademica – da popolazioni nomadi ariane che avevano una superiore tecnologia militare grazie alla conoscenza del ferro e dei carri da guerra.

Per questo motivo il termine mleccha viene usato per molti secoli anche in riferimento ad altre popolazioni locali. Il viaggiatore greco Megastene, che descrisse l’India del IV secolo a.C., fa riferimento a popolazioni ariane circondate da mleccha.

A differenza di quanto avviene in Grecia e in Cina, il termine barbaro o straniero non indica una connotazione etnica, quanto una diversità culturale.
È straniero chi non pratica, o pratica solo parzialmente, le usanze hindu o non si configura all’interno del sistema brahmanico. Da un lato rappresenta un elemento di esclusione, dall’altro offre possibilità di inclusione, è possibile essere assimilati adottando le pratiche e le norme di riferimento della cultura sanscrita. È anche questa una delle ragioni della grande diversità e stratificazione dell’India odierna che ha permesso la coesistenza, se non l’integrazione, di una grande varietà di culture. Gradualmente, infatti, la definizione di mleccha riferita a popolazioni indigene tende a ridursi e poi a sparire. Nel corso del Medioevo il termine mleccha si connota sempre più in maniera territoriale, come straniero, non appartenente al territorio compreso compreso tra l’Hymalaya, l’oceano e i passi dell’Asia centrale. L’India, definita anche Bharatavarsha, assume un carattere sacrale, per certe caste sarà addirittura proibito oltrepassare questi confini e, in caso di viaggio, saranno necessari riti di purificazione per rientrare nell’ordinamento consolidato.

L’Islam e la separazione del Pakistan

Questo sistema di esclusione/inclusione sarà però messo alla prova, nella seconda metà del Medioevo, dalla penetrazione islamica che avverrà soprattutto tramite conquiste militari, a opera principalmente di dinastie afghane tra l’XI
e il XV secolo e, poi, turco-mongole, i Moghul, dopo il XVI secolo.

Il sistema islamico era meno permeabile a processi di inclusione e assimilazione, anzi introdusse alcune proprie rigidità e – come elemento di differenziazione rispetto alle popolazioni indiane – il concetto totalmente nuovo di “pagani”. Da quel momento la storia culturale e sociale dell’India registra grandi momenti di integrazione e confronto, ma anche grandi momenti di collisione, non ci sarà quel tipo di fusione e assorbimento che si era verificato con culture precedenti.

La presenza musulmana in India poi si differenzia in due grandi categorie, quella elitaria, dei conquistatori e dei loro discendenti e quella, invece, subalterna, dei convertiti all’Islam, in genere provenienti da basse caste. Tra queste ultime l’Islam soppianta il Buddhismo, come alternativa al Brahmanesimo.

Il potere politico, fino all’inizio del predominio inglese nel XVIII secolo, è soprattutto egemonizzato dalle classe dominanti musulmane nel nord dell’India, mentre invece la penetrazione nell’India meridionale è meno intensa. L’avvento del colonialismo produsse poi diverse reazioni, le élite musulmane si rifugiarono nel culto aristocratico delle glorie passate, mentre il mondo hindu si dimostrò più incline a inserirsi nei meccanismi portati da una modernizzazione di tipo occidentale.

Per questi motivi, nella prima metà del Novecento si affermarono diverse forme di nazionalismo: una di tipo laico e territoriale, propugnata soprattutto dal Congresso, da Nehru e Gandhi, e una di tipo culturale, sia hindu che islamico. Mentre il nazionalismo hindu non sarebbe riuscito a scalfire l’egemonia del Congresso, il nazionalismo islamico divenne, invece, egemone tra i musulmani negli anni Quaranta, e portò nel breve volgere di pochissimi anni alla rivendicazione e poi alla nascita dello Stato separato del Pakistan.

Gli ultimi anni di predominio inglese furono caratterizzati in India da un ampio dibattito sul significato di nazione. Mentre il Congresso propugnava che ogni individuo era indiano, a prescindere dalla lingua o dalla religione, alcuni esponenti del mondo hindu sostenevano che l’appartenenza alla nazione era definita non solo dalla nascita nel territorio ma anche dall’appartenenza alle religioni che vi erano nate. Di contro il nazionalismo islamico, anticipando di qualche decennio temi dello scontro di civiltà, sosteneva che hinduismo e islamismo erano non solo due religioni separate ma modi di vivere, stili di vita e sistema di valori incompatibili con storie contrapposte, in cui gli eroi degli uni erano invece il nemico degli altri.

Negli ultimi mesi di dominazione inglese, anche a causa di un certo indebolimento dell’ordine pubblico e negligenza delle autorità coloniali, ormai prossime al ritiro, ci furono diversi scontri sanguinosi tra hindu e musulmani, il più delle volte organizzati e pianificati. In parte erano anche il frutto di una strategia volta a dimostrare l’impossibilità di una coesistenza, in altri casi il frutto di ritorsioni di una comunità verso l’altra per violenze compiute altrove.

Il teatro delle tensioni fu soprattutto il nord dell’India, in particolare le Province Unite (l’odierno Uttar Pradesh) e il Bihar – che erano le sedi del potere politico prima del colonialismo – in cui i musulmani erano in minoranza ma rappresentavano le élite tradizionali e il centro propulsore del movimento per il Pakistan. La rivendicazione del Pakistan era soprattutto un’arma ideologica, un’affermazione di identità e non ci fu un’immediata comprensione delle implicazioni territoriali. Richiedendo di separare le regioni del paese, a maggioranza musulmana, che si trovavano invece a nord-ovest e nord-est si rivendicava la creazione di uno Stato di cui non si sarebbe fatto parte.

Inizialmente la risposta alla rivendicazione del Pakistan fu piuttosto tiepida nelle regioni a maggioranza musulmana reclamate per la creazione del nuovo Stato. L’insicurezza di essere minoranza non era percepita in eguale misura che in altri parti dell’India. Nelle principali regioni che avrebbero costituito il Pakistan, come il Punjab e il Bengala, dove i musulmani formavano una lieve maggioranza, c’era anche una tradizione unitaria, dovuta alla comunanza della lingua, dei costumi, delle tradizioni e di una cultura regionale molto forte. In particolare in Punjab, uno Stato agricolo fortemente avanzato, c’era una forte tradizione unionista e laica tra le comunità hindu, musulmane e sikh, soprattutto nelle élite agrarie che condividevano gli stessi interessi economici.

Di fatto queste comunità si trovarono di fronte a due opposte lealtà, quella rispetto all’identità della propria lingua e della propria cultura contro quella determinata dalla religione, che infine prevalse col graduale scollarsi dell’ordine sociale e, probabilmente, anche per una certa preferenza inglese a trasferire i poteri a due Stati separati. Pur essendo decisi a lasciare il controllo politico di quello che era definito “il gioiello della Corona” gli inglesi erano comunque  interessati a mantenere l’ex India Britannica in toto o in parte nel Commonwealth.
La spartizione rese in qualche modo il compito più agevole. Mentre Jinnah, il leader del movimento per il Pakistan, aveva annunciato l’adesione al Commowealth senza esitazione, Nehru e il Congresso furono per molto tempo contrari e si decisero solo alla fine in maniera riluttante, per evitare che l’assistenza britannica andasse solo all’altro Stato.

Il Bengala e il Punjab vennero perciò divisi al loro interno e i distretti a maggioranza musulmana furono assegnati al Pakistan e quelli a maggioranza hindu all’India. Le popolazioni, però, erano miste e il clima di violenza di quel periodo – accompagnato allo shock collettivo di ritrovarsi all’improvviso stranieri tra quanti si ritenevano fino a poco tempo prima membri della stessa comunità linguistica e regionale – portò a migrazioni di massa, accompagnata da grandi violenze; il numero delle vittime è imprecisato ma si parla anche di centinaia di migliaia di morti. Un bilancio paragonabile a quello dei paesi europei che uscivano dalla Seconda Guerra Mondiale. Si è trattato del risultato di un’operazione per risolvere problemi di coesistenza, che nel corso degli anni ha trasformato un conflitto interno in un conflitto internazionale di due potenze atomiche.

Le migrazioni di massa

Sono passati oltre settant’anni dalla Spartizione, ma non è ancora stata assorbita. Fino a pochi anni fa poteva essere normale avere alti dirigenti indiani che erano nati in Pakistan o alti dirigenti Pakistani nati in India. Lo stesso Jinnah, il fondatore del Pakistan, era fortemente legato a Bombay, una parte della sua famiglia, tramite la moglie Parsi, rappresenta uno dei principali gruppi imprenditoriali indiani e la sua casa costruita dall’architetto Claude Batley attualmente è sede del Consolato pakistano non senza qualche controversia col governo indiano, anch’esso interessato al suo controllo. Il successore di Jinnah, Liaqat Ali Khan, era un immigrato proveniente dalle Province Unite in India. All’inizio di questo secolo il capo del governo in Pakistan era il generale Musharaff, nato a Delhi, e l’uomo forte del governo indiano e leader del partito di governo, il ministro degli Interni L.K. Advani, era nato invece a Karachi in Pakistan. Il Primo Ministro indiano nel successivo governo, Manmohan Singh, è anch’egli nato in Pakistan, così come Gujral, altro Primo Ministro indiano sul finire degli anni Novanta.

La Spartizione ha comportato migrazioni di massa, provocando movimenti di persone, ma anche mutamenti di proprietà e un lungo lascito di recriminazioni e rivendicazioni.

Nel 1947 la popolazione hindu nel Pakistan occidentale era oltre un quarto del totale, mentre oggi rappresenta una presenza trascurabile, l’1,6%. Nel Pakistan orientale, l’odierno Bangladesh, la popolazione hindu era il 27-28% mentre attualmente rappresenta il 10%.

La Spartizione ha provocato migrazioni di massa anche tra i musulmani, circa 6 milioni di persone si trasferirono dall’India al Pakistan occidentale tra il 1947 e il 1950, quasi il 20% della popolazione di quel territorio. La gran parte di essi proveniva dal Punjab orientale entrato a far parte dell’India, ma vi era anche una forte presenza, oltre un milione di persone, conosciute come mohajir, provenienti da altre regioni del nord dell’India in cui erano minoranze. Le prime migrazioni mohajir erano soprattutto di elementi che facevano parte della classe dirigente del nuovo Stato, mentre le successive, che continuarono anche nel corso degli anni Cinquanta, ebbero una composizione sociale più varia. In genere i mohajir avevano un buon livello di istruzione e urbanizzazione, hanno costituito a lungo la maggioranza della popolazione di Karachi che fu la prima capitale del paese ed è ancora quella economica, hanno un’influenza politica rilevante, ma la loro integrazione con le popolazioni locali che parlano una lingua diversa rimane comunque complessa. Nei primi mesi dopo la Spartizione, a Karachi, che all’epoca era una città di medie dimensioni, non la megalopoli odierna, vi furono scontri con la popolazione locale per via della crisi di alloggi determinata dall’arrivo di un numero così alto di immigrati. La popolazione di Karachi, che nel 1947 era di 450.000 abitanti, superava il milione nel 1951. Karachi prima della Spartizione aveva un’importante popolazione hindu (40%), dedita soprattutto ai commerci e all’imprenditoria, che si rifugiò in India, lasciando numerose proprietà che poterono essere utilizzate dai mohajir. Nel complesso, il saldo netto della popolazione proveniente dall’India dopo la Spartizione era molto più alto dei residenti originari. I mohajir inoltre parlavano prevalentemente Urdu, la lingua franca musulmana del nord dell’India, mentre i locali parlavano Sindh. Una fonte di risentimento era anche dovuta al fatto che i nuovi arrivati erano istruiti, rappresentavano l’élite intellettuale che aveva guidato il movimento per il Pakistan ed essendo Karachi in quegli anni la capitale, occupavano posti di rilievo nell’amministrazione. L’odierna Karachi ha quindici milioni di abitanti, è una città prevalentemente musulmana anche se ha una piccola minoranza cristiana e hindu e rappresenta un melting pot delle varie province del Pakistan. L’Urdu è la lingua parlata da circa metà della popolazione, il Sindhi, la lingua dello Stato di cui è la capitale solo dal 6-7%.

Non fu immediatamente chiaro che l’identità indiana o pakistana corrispondesse al fatto di essere “stranieri”. Il comitato costituito per la Spartizione dell’India britannica aveva lasciato aperta la questione delle leggi sulla nazionalità e come emendare le leggi inglesi sul passaporto, facendo intendere che non ci dovessero essere restrizioni al movimento delle persone tra i due territori.

Tuttavia fu inevitabile, con l’insediamento di due nuovi Stati, che un concetto di cittadinanza territoriale dovesse in qualche modo prevalere. Circa un anno dopo la Spartizione venne introdotto un sistema di lasciapassare e permessi per muoversi da un paese all’altro, un titolo che valeva specificamente per ogni viaggio. Tale sistema rimase in vigore per quattro anni, dal 1948 al 1952, rappresentò un primo momento di comprensione che si stava diventando “stranieri” ma al tempo stesso lasciava aperta la speranza che si potesse tornare a un regime di movimenti senza restrizioni.

L’adozione delle leggi di cittadinanza da parte dei due paesi e poi l’introduzione del sistema dei passaporti nel 1952 pose fine a questo e sanzionò definitivamente la consapevolezza di appartenere a due Stati. Ciò fu particolarmente traumatico per le comunità musulmane del nord dell’India. L’iniziale porosità dei confini aveva lasciato una certa ambivalenza sull’identità. C’erano famiglie musulmane divise, persone che si erano rifugiate in Pakistan nei giorni caldi della Spartizione ma poi erano ritornate – ci fu, infatti, anche un movimento di musulmani di rientro, soprattutto a Delhi nel 1948, delusi per le difficoltà dell’emigrazione, in particolare quelli provenienti da Karachi, oppure rinfrancati dopo che i digiuni di Gandhi avevano contribuito a calmare la situazione – altre ancora che avevano semplicemente viaggiato per incontrare congiunti che erano emigrati. Di fatto il passaporto comportò una scelta di cittadinanza, sanzionò un concetto territoriale di Stato che contrastava con la fluidità di appartenenza ed esclusione che aveva caratterizzato l’India pre-moderna e i confini, che erano mentali e culturali, divennero fisici.

Bangladesh e Kashmir

Le relazioni tra India e Pakistan dopo l’Indipendenza sono state caratterizzate da quattro conflitti. Uno di essi ha riguardato il Bangladesh, che fino al 1971 costituiva il Pakistan orientale. La sua popolazione era di cultura e lingua bengalese, ma di religione musulmana, per questo fu separata dalla sua parte occidentale, a maggioranza hindu, che entrò a far parte dell’India assieme alla capitale della regione, Calcutta. La caratterizzazione regionale era talmente forte che nel 1947 ci fu un tentativo di stabilire un Bengala unito e indipendente come terzo Stato successore dell’India britannica. Infine anche il Bengala, come il Punjab, fu diviso e la parte

musulmana costituì il Pakistan orientale, separato dal Pakistan occidentale da oltre 2200 km di territorio indiano. La popolazione del Pakistan orientale era leggermente superiore ma il controllo politico dello Stato era soprattutto nella parte occidentale. Il Pakistan orientale di lingua bengalese risentiva soprattutto del tentativo di imporre l’urdu come lingua ufficiale. La religione aveva costituito un motivo di separazione dall’India ma non sufficiente per garantire un’integrazione con il nuovo Stato pakistano, anzi la forte identità linguistica rappresentò un elemento insormontabile che portò a nuova separazione, all’indipendenza e alla creazione del Bangladesh nel 1971, con l’intervento armato dell’India contro il Pakistan.

Gli altri tre conflitti hanno riguardato soprattutto il Kashmir nel 1947-48, nel 1965 e nel 1999.

Al momento dell’indipendenza oltre i due terzi del territorio indiano erano governati da un gran numero di Stati (565) retti da principi o raja locali che avevano un trattato formale con la corona inglese cui erano delegati la difesa, gli affari esteri e le comunicazioni. Alcuni di essi erano molto piccoli, altri avevano dimensioni superiori a quelle di uno Stato europeo. In alcuni casi il governante era di religione musulmana e guidava popolazioni a maggioranza hindu, in altri casi succedeva l’opposto. Tra questi vi era il Kashmir, un territorio di circa 300.000 kmq retto da un principe hindu, mentre la popolazione era in maggioranza musulmana. Al momento dell’indipendenza fu necessario per questi Stati scegliere se appartenere all’uno o all’altro territorio. La scelta spettava ai governanti e non alle popolazioni. Quasi tutti i principi decisero di aderire in poco tempo a uno dei nuovi Stati nascenti. Il Kashmir rappresentò una delle poche eccezioni perché il maharaja locale Hari Singh cercò inizialmente di mantenere l’indipendenza.

L’accessione del Kashmir era un tema particolarmente delicato, anche perché era la regione di provenienza di Nehru, che appoggiava Sheikh Abdullah, un politico locale che contestava il potere autocratico del maharaja.

Nell’ottobre del 1947 avvenne un’invasione del Kashmir da parte di forze irregolari pakistane, supportate dall’esercito, che giunsero ai limiti della capitale Srinigar e sembrarono prossime a prendere il controllo dello Stato. A quel punto il maharaja chiese l’appoggio dell’India che fu concesso solo dopo che il principe firmò l’atto di accessione, accettato dal governatore generale dell’India con la clausola che si sarebbe interpellata la volontà popolare una volta ristabilito l’ordine. Dopo l’accessione truppe aerotrasportate indiane giunsero a Srinigar e ripresero gradualmente gran parte del territorio; a quel punto intervenne formalmente anche l’esercito pakistano e il conflitto si protrasse per mesi, finché non avvenne un formale cessate il fuoco il 31 dicembre 1948, lungo quella che si definisce la linea di controllo, che di fatto costituisce da allora un confine effettivo, lasciando all’India circa due terzi del territorio del Kashmir e creando una nuova spartizione regionale.

Dopo l’accessione, un articolo della Costituzione indiana (370) ha assegnato una speciale autonomia al Kashmir, che è anche l’unico Stato indiano ad avere una Carta costituzionale propria adottata nel 1956. Nehru tentò poi senza successo di risolvere la controversia alle Nazioni Unite. Dopo la guerra per il Bangladesh, India e Pakistan decisero con il Trattato di Shimla del 1972 di sciogliere la questione bilateralmente. In realtà non solo non ci furono progressi, ma a partire dal 1989 c’è una costante alienazione di una parte delle popolazioni che vive nelle valli centrali e un’attività militante supportata dal Pakistan che in qualche modo cerca di retribuire l’India per l’intervento in Bangladesh.

Il Kashmir è l’unico Stato indiano a maggioranza musulmana (68%) e per questo aveva una particolare importanza per Nehru, in quanto, oltre ai legami affettivi per la propria appartenenza, costituiva una potenziale conferma della sua idea di Stato laico e territoriale. Riveste una grande sensibilità in India anche per il fatto che molti luoghi religiosi dell’hinduismo sono collocati in Kashmir. È altrettanto sensibile in Pakistan, che ha la sua ragione di esistere nell’essere uno Stato islamico e il Kashmir rappresenta, in qualche modo, una terra irredenta e un collante ideologico importante. Per entrambi i paesi è il simbolo di una Spartizione mai terminata.

Note

1. Carlo Cattaneo, Dell’India Antica e Moderna, «Rivista Europea», Marzo-Aprile 1845.

2. Romila Thapar, Image of the Barbarians in Early India, in Comparative Studies in Society and History.

3. Vazira Fazila-Yacoobali Zamindar, The Long Partition and the Making of Modern South Asia. Refugees, Boundaries, Histories, Penguin Viking 2008, p. 82.

 

Leggi anche “L’India la Lunga Partita dei Confini”, di Sauro Mezzetti pubblicato su “AREL la rivista” numero 2/2018 dal titolo TREGUA ?

L’India, la lunga partita dei confini

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