Lunga vita vs bella vita

 
450 milioni di over 80enni nel 2050. Ma ne vale la pena?
 
Se, come abbiamo visto martedì scorso, lo sviluppo della scienza medica – e della medicina rigenerativa in particolare – può allungare ulteriormente la vita, con il 2050 che vedrà sul pianeta 1,6 miliardi di over 65enni e 450 milioni di over 80enni (fonte: National Academies of Science), c’è da porsi una ulteriore domanda. Ai ritmi lavorativi delle grandi metropoli mondiali – soprattutto asiatiche – con il business al centro di tutto fino alla tarda età, varrà la pena di vivere così tanto?
Il mio principio di “muovere il culo” è soprattutto (ma non solo) uno sprone alla consapevolezza e alla volontà di trovare il miglior lavoro possibile in funzione delle attitudini di ognuno di noi. E a cavallo del 2050 – continuando semplicemente sui ritmi odierni di crescita generale di cultura e scienza – si prospetta realmente una società sempre meno malata in termini salutistici e inevitabilmente sempre più concentrata sui soldi per mantenere un tenore di vita accettabile ben oltre gli 80 anni. E se già oggi la qualità della vita intesa come tempo da dedicare al lavoro e ai relativi spostamenti è dura. In questo senso basta l’esempio odierno di Hong Kong, dove una famiglia di quattro persone vive in un appartamento di 30 metri quadrati, ai lavoratori sono richieste giornate da 20 ore e, come se non bastasse, devono fare un’ora di metropolitana per andare in ufficio e una per tornare a casa. Come saremo messi nel 2050?
Peraltro è un tema dibattuto da tempo. Già nel 1948, il filosofo tedesco Josef Pieper, nel suo libro Leisure: The Basis of Culture, inventa il termine “Total work” per indicare il processo attraverso il quale gli esseri umani vengono trasformati in lavoratori e nient’altro. Non è mica fantascienza distopica. Si riferisce ben più realisticamente alla situazione in cui il lavoro è al centro di tutta la vita umana; quando tutto il resto – tempo libero compreso – è messo al suo servizio. Guardate che io di uomini così, in giro per il mondo, ne conosco tanti.
Badate bene, come fa notare Andrew Taggart in un suo articolo su Aeon (Creative Commons): “Fondamentalmente, l’atteggiamento del lavoratore totale non è colto al meglio nei casi di superlavoro, ma piuttosto nel modo in cui ogni giorno è focalizzato in modo univoco sui compiti da completare, con la produttività, l’efficacia e l’efficienza da potenziare. Come? Attraverso le modalità di pianificazione efficace, la definizione delle competenze e la delega tempestiva. Il lavoratore totale, in breve, è una figura di attività incessante, tesa, impegnata: una figura, la cui afflizione principale è una profonda irrequietezza esistenziale fissata sulla produzione dell’utile”.
Che in un quadro simile, in parte, mi ci riconosco io stesso.
E continua Taggart, immaginando una conversazione tra due lavoratori totali: “C’è, per cominciare, una tensione costante, un senso di pressione generale associato al pensiero che c’è qualcosa che deve essere fatto, sempre qualcosa che dovrei fare in questo momento. Come dice il secondo interlocutore, c’è in concomitanza la domanda incombente: è questo il miglior uso del mio tempo? Il tempo, il nemico, la scarsità, rivelano i limitati poteri d’azione dell’agente, il dolore dei costi di opportunità irrisolvibili”.
Datemi retta, queste considerazioni non sono così filosofiche come possono apparire, sono assolutamente corrette. E, potenzialmente, innescano un ciclo infinito di insoddisfazione. Con il rischio di perdere del tutto l’orizzonte tanto caro al popolo italiano, non del fancazzismo ma del migliore umanesimo, della bellezza, del rapporto con l’eternità, con i sentimenti astratti dell’amore e del divertimento, astratti ma che sono alla base dei migliori momenti della nostra vita.
E, a parte le battute, pensare a una società piena di ultraottantenni insoddisfatti che si affannano in una quotidianità di solo lavoro mi spaventa non poco.

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