La sfida della Cina raccontata da Forchielli 

L’imprenditore imolese ha lasciato l’Asia per gli Usa: «L’economia sta perdendo il primato a favore della geopolitica» 

«La Cina vuole giocare un ruolo di potenza dominante. Ha un presidente molto ambizioso e un popolo molto nazionalista. È una situazione preoccupante». 

Alberto Forchielli è tornato nella sua casa sulle colline imolesi. Vive negli Stati Uniti e, grazie al suo passato di operatore finanziario in Asia, conosce molto bene la realtà della Cina che in questi giorni occupa le cronache mondiali. 

Forchielli, diamo sostanza al termine «preoccupante». «Potrebbe attaccare Taiwan, sta cercando di creare un contrappeso al G7 attraverso il patto dei Brics, ovvero Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, a cui vorrebbero aggregare la Turchia e l’Arabia Saudita. Tutti Paesi che si riconoscono in un modello autoritario di sviluppo. Questo vuol dire incoraggiare anche Paesi più deboli ad assumere modelli autoritari attraverso politiche di moral suasion e con molti finanziamenti». 

Lei ora vive a Boston e ha una conoscenza ancora più diretta degli Stati Uniti, quali sono i limiti degli Usa in questo bipolarismo? «Il limite è che potrebbero perdere la guerra di Taiwan». 

Quindi per lei l’opzione militare è la più probabile? «Sono molto molto pessimista su Taiwan perché la Cina si è armata da matti e le parole sul fronte interno sono parole di fuoco e di guerra: “Tenetevi pronti, dovete vincere, ci saranno tempi duri”. Neanche nella Germania nazista si sentivano frasi così esplicite. Il desiderio imperiale della Cina si vede: s’è ritagliata un pezzo di mare della Cina meridionale dove nessuno può entrare senza chiedere il permesso a lei. Lo ha fatto portando via l’isola ai Paesi limitrofi come le Filippine. C’è un desiderio di dominio che finché non si sblocca la situazione di Taiwan è limitato dalla presenza americana nel Pacifico». 

Ma gli americani continuano a rimanere lì, lo fanno con coscienza? «Gli americani litigano su tutto ma c’è un tema su cui sono tutti d’accordo: la Cina è un nemico. Come siamo arrivati lì è una lunga storia e non la farò, ma dico solo che dopo aver pensato per trentanni che la Cina sviluppata economicamente sarebbe diventata un Paese democratico, e averla anche sostenuta con investimenti, si sono accorti che tutto questo non è avvenuto». 

Cosa è stato a decidere che il processo di democratizzazione della Cina non ci sarebbe stato? «È stato l’avvento di Xi Jinping nel 2012. Intorno al 2016 gli Usa hanno perso ogni speranza e da allora c’è una guerra in atto. Per il momento è commerciale, con dazi e blocchi, ma stanno facendo di tutto per contenere e limitare la Cina, ad esempio con accordi strategici con India, Australia e Giappone. Poi stanno costruendo nuove basi nelle Filippine». 

Le dinamiche democratiche degli Stati Uniti e il confronto Biden-Trump possono creare problemi? «Non per la Cina, ma per l’Ucraina perché sia Trump che il suo rivale repubblicano Ron DeSantis, governatore della Florida, hanno dichiarato che sono contrari alla guerra in Ucraina e questo potrebbe creare problemi, ma non sulla situazione nel Pacifico». 

Trump può rivincere di nuovo? «Non dovrebbe, ma metti che l’economia vada molto male e che Biden faccia qualche papera e ce lo ritroviamo». 

Le vicende di Ucraina e Taiwan come sono collegate? «L’unico modo per scongiurare un attacco a Taiwan è vincere la guerra in Ucraina. I cinesi non vogliono che Putin perda, ma non vogliono dare troppi aiuti militari alla Russia per non inimicarsi l’Europa che per loro è un mercato troppo importante». 

Xi nella sua visita a Mosca ha dato l’impressione di essere in grande sintonia con Putin. «Entrambi rappresentano governi autoritari e considerano mollaccioni i democratici». 

Un confronto tra modelli democratici e autoritari? «C’è proprio un confronto tra il mondo occidentale compresi Giappone, Corea, Taiwan e Australia, e il cosiddetto Global South, ovvero tutti quei Paesi che non hanno condannato l’invasione russa dell’Ucraina: la maggior parte dei Paesi sudamericani, asiatici e africani». 

Come mai secondo lei? «Perché hanno disprezzo per i Paesi occidentali, che sono stati loro colonizzatori e li hanno sempre sottoposti ai loro interessi economici, e perché sono più portati verso una sfera autoritaria che li spinge sulla Via della Seta. E poi dalla Cina gli stanno arrivando molti soldi». 

L’Europa è in declino? «Non è un declino, è un non avanzamento. L’Europa è un insieme di piccoli Paesi e questo al giorno d’oggi non fa la differenza. Dovrebbero aggregarsi, ma i governi nazionali e i popoli non vogliono cedere alle proprie prerogative. Inoltre il processo decisionale, molto macchinoso, molto complesso, fa fatica a esprimere una politica estera o una politica militare comune. L’Europa è un bicchiere  mezzo vuoto e mezzo pieno: l’unità è stata un grande traguardo con i giovani che possono muoversi è una cosa grandiosa e nessun altro gruppo di Paesi al mondo ha fatto cose simili. Il problema è che per giocare un ruolo di grande potenza serve molto di più». 

L’economia globalizzata può aiutare a superare il conflitto militare? «Si diceva che l’economia globale avrebbe cancellato le guerre perché mai è successo che due Paesi che hanno i McDonald’s avrebbero combattuto tra di loro. Invece si è dimostrato che non è vero. In questa fase c’è un ritorno della geopolitica e si allenta la globalizzazione. Le catene del valore devono tornare a casa o appoggiate a Paesi amici. L’economia sta perdendo il primato a favore della geopolitica. La Cina si è approfittata di questa situazione e si è arricchita alle nostre spalle». 

Nel nostro territorio che riflessi può avere cambiare le value chain? «Le nostre aziende non sono molto legate alla Cina e non abbiamo grandi investimenti né scambi con essa». 

Quanto queste dinamiche influenzeranno la vita di noi cittadini normali? «Si parla di una guerra a Taiwan nel 2025-2027 e quella sarebbe molto peggio della guerra in Ucraina, con una caduta del Pil cinese del 25% e di quello occidentale del 15%. Sarebbe bestiale perché la Cina pesa molto sulla nostra economia». 

Se invece la guerra in Ucraina finisse con una vittoria occidentale cosa succederebbe? «Cambierebbe il quadro, perché si certificherebbe che la democrazia può vincere e che la tecnologia militare russa non vale molto. Anche Xi Jinping farebbe una riflessione. In Ucraina ci giochiamo tanto perché se le democrazie, pezzenti dal punto di vista delle autocrazie, riescono a tenere botta mandano un segnale. Al momento ci stanno riuscendo». 

L’intervista di Lara Alpi e Paolo Bernardi pubblicata su Sabato Sera, 20 Aprile 2023

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