La Scuola Italiana Vista da un Emigrato

Una riflessione personale
Iniziamo con l’evitare fraintendimenti: questo articolo non vuole essere obiettivo e accademico. È piuttosto un insieme di riflessioni personali, frutto delle mie esperienze: figlio di genitori benestanti, nato e cresciuto in una ricca città del Nord, educato in “buone, anzi ottime” scuole, diplomatomi da un liceo classico con potenziamento di matematica due anni fa, studente all’Università di Oxford, e al momento stagista a Shanghai. Non mi definirei un secchione, ma di sicuro uno che ha passato molto tempo sui libri.
 
Undici son troppe
Frequentando l’università all’estero mi è capitato più volte di dover spiegare il sistema scolastico italiano a degli stranieri. E uno dei commenti più comuni è stato “voi studiate tantissime materie!”. Ebbene sì, è vero: per l’esattezza undici nel mio ultimo anno, da quelle scientifiche a quelle classiche, dalle lingue morte a quelle vive. Come ogni medaglia, anche questa ha due facce. Studiare una gamma così ampia e varia di materie permette allo studente di ottenere una buona cultura generale, di cui ci vantiamo ad ogni buona occasione: possiamo tradurre le scritte in latino su antichi palazzi e utilizzare citazioni famose dal nostro amato latinorum, abbiamo una buona conoscenza della storia, possiamo fare da ciceroni nei principali musei europei, e al tempo stesso cavarcela con qualche conoscenza scientifica. Mi sono reso conto del buon livello di cultura generale che lo studente italiano può ottenere, confrontandomi con coetanei inglesi, neozelandesi, francesi e via discorrendo. Per quanto acculturati possiamo essere, e per quanto compiacimento e giovamento possiamo trarne, studiare undici materie differenti vuole dire non poter approfondirne più di tanto gli argomenti. Si può tirare la coperta degli orari un po’ di qua e un po’ di là, ma alla fin fine risulta sempre troppo corta per coprire tutto quanto. Quante volte è successo di arrivare a Maggio con l’acqua alla gola e professori che fan di tutto pur di portare a termine il programma, rendendone lo studio piuttosto superficiale. La soluzione non è allargare la coperta, aumentando le ore di scuola: la soluzione è rimodulare gli obiettivi rispetto agli orari che si hanno. Ottenere una conoscenza approfondita in undici materie semplicemente non è realistico. Focalizzare l’attenzione su un minor numero di materie negli ultimi due anni di istruzione superiore, lasciando libera scelta allo studente, è a mio parere la miglior soluzione.
 
L’utilità è relativa
Durante la chiacchierata con l’amico sorge poi sempre la sua meraviglia quando gli svelo, un po’ con orgoglio e un po’ con rassegnazione, che ho studiato latino e greco per cinque anni. Vari miei compagni di corso di laurea (che è Philosophy, Politics and Economics), al liceo invece hanno frequentato corsi di matematica avanzata, statistica, economia o business. Chi è nella situazione migliore? La diatriba sull’utilità o inutilità dello studio delle lingue morte non verrà mai risolta definitivamente, specialmente in un Paese litigioso come l’Italia. Di sicuro però quei miei compagni di università hanno faticato molto meno nel primo anno di università,. D’altro canto, io ho potuto aggiungere qualche elegante parola in greco o in latino nei miei saggi brevi di scienze politiche e filosofia, o includere alcuni concetti di filosofia studiati al liceo. L’utilità e il valore di qualcosa non è assoluto, ma relativo alla situazione. Di sicuro non è una nostra scelta quella di vivere in un mondo che guarda all’economia più che alle scienze politiche, o di ritrovarci in un ambiente lavorativo in cui delle conoscenze classiche importa poco a pochi. Può piacerci oppure no, ma la situazione è questa. Risulta dunque evidente (almeno a me) che lo studio di materie come il latino e il greco sia al momento squilibrato rispetto allo studio di materie alternative: troppo prolungato e con un dispendio troppo alto di tempo e forze. Quante ore passate in compagnia di quei pesantissimi dizionari!
 
Programmazione, questa sconosciuta
Sempre durante il primo anno di università, abbiamo iniziato ad utilizzare un programma di analisi statistica, che è stato per me fonte di varie (fin troppe) ore passate inutilmente a cercare di farlo funzionare. Mi ha salvato un mio compagno di corso tedesco: al liceo avevano imparato ad usare Stata durante le ore obbligatorie di programmazione. Notare che non aveva frequentato una scuola tecnica, ma un normalissimo liceo. Anche il curriculum nazionale britannico prevede lezioni obbligatorie di programmazione, partendo dalla spiegazione degli algoritmi come una ricetta di cucina all’età di 5 anni, fino ad arrivare alla conoscenza di due lingue di programmazione e alla capacità di creare un proprio programma all’età di 14 anni. Anche io, certo, ho avuto esperienza nella programmazione: un corsetto sulla programmazione Java, inserito nell’orario di matematica, nel quarto anno di liceo. È già qualcosa: alla fine del corso eravamo capaci di creare una calcolatrice con le operazioni base. Ma, fatto con discontinuità e senza alcun peso sulle valutazioni, è stato più che altro un sassolino gettato nello stagno che ha smosso le acque per un po’ senza dare dei fondamenti duraturi. Si trattava inoltre di un progetto organizzato dall’istituto. Insomma, un privilegio derivante dal fatto di studiare in un liceo con buone risorse. Di certo molto diverso dall’inclusione della programmazione nel curriculum nazionale inglese, a cui tutte le scuole si devono attenere. La scuola italiana necessita di una forte spinta in più in questo campo. E attenzione, imparare a programmare non è solamente un ottimo asset nel momento in cui bisogna cercare lavoro (i programmatori vanno a ruba, specialmente all’estero). La programmazione insegna a pensare al modo in cui pensare, a strutturare pensieri e frasi in modo logico, e aiuta ad acquisire la “rinomata” capacità del problem-solving.
 
Gli istituti tecnici
Chi ha frequentato istituti tecnici potrebbe rispondermi: io ho studiato economia, io giurisprudenza, io programmazione. Tali materie però sono offerte solo in istituti tecnici, e non nei licei. Il problema dunque sorge dal fatto che l’istruzione presso istituti tecnici soffra di una cattiva reputazione. In parte meritata, in parte retaggio del modo in cui il sistema educativo italiano fu inizialmente concepito in epoca fascista. È difficile trovare famiglie che spingano i propri figli ad iscriversi ad un istituto tecnico. Quante famiglie invece premono per mandare i propri figli al liceo classico senza che il figlio abbia la ben che minima intenzione di studiare greco e latino! Alcuni istituti tecnici sono riusciti a scrollarsi di dosso questa reputazione, istituendo corsi avanzati e innovativi, aprendo interessanti collaborazioni con aziende e altri progetti simili. La maggior parte degli istituti tecnici, tuttavia, ancora soffre di questa problematica e fa poco per risolverla. Si perdono così grandi opportunità.
 
Antico o vecchio?
Nell’estate tra il primo e il secondo anno di università alcuni miei amici inglesi decidono di visitare l’Italia, passando anche dalla mia città. Camminando verso il centro città passiamo davanti al mio liceo. “È un palazzo così antico!”. Antico o vecchio, dipende dai punti di vista. Aule che sarebbero completamente da ristrutturare, bagni nell’ala vecchia che sono semplicemente vergognosi, strumentazione nei laboratori di fisica e chimica che fa ridere, alcuni professori che ancora utilizzano la lavagna luminosa per lucidi, proiettori e televisioni da prenotare giorni prima perché ce ne sono in numero limitatissimo. Insomma, la famosa carta igienica che manca e i muri che perdono l’intonaco di cui tanto si parla. Certo, non è colpa dell’istituto in sé: “mancano le risorse”. Non stupisce: nel 2014, l’Italia ha investito sull’istruzione l’equivalente del 4% del PIL, sotto la media europea del 5%. Ma soprattutto ben al di sotto dei Paesi del Nord: Belgio, Finlandia, Svezia hanno speso tra il 6.3% e il 6.6% del PIL. La Danimarca il 7%. Francia e Regno Unito intorno al 5.5%. Ogni governo ribadisce la priorità del sistema scolastico, ma le parole non si traducono in azioni concrete.
 
Ce l’ha con me!
Alla fine di ogni bimestre, l’Università di Oxford manda dei moduli online da compilare. E finché non mandi le risposte continua a riempirti la casella postale di email. No, non sono dei test. Sono i moduli di valutazione dei professori e dei loro corsi. Puoi dare un voto su tutto: l’esposizione del professore, l’uso di slide, il ritmo di studi, la disponibilità dei testi usati, la difficoltà delle lezioni e simili. In più ovviamente un campo libero per i suggerimenti. E non è finita, quei moduli non finiscono nel dimenticatoio: più di una volta la facoltà ha adottato cambiamenti sulla base delle risposte ricevute. Non succede solo a Oxford, ma è pratica comune in tutte le università inglesi e anche in numerose scuole. Idem in Nuova Zelanda, dove ho passato sei mesi del mio quarto anno di liceo. Nella mia intera carriera scolastica, ho avuto una sola professoressa che ci consegnava delle schede simili. Un buon esempio, ma di certo non una pratica diffusa. Anche amici in università italiane ricevono questi moduli, ma spesso non c’è un risvolto fattivo. Tale pratica non è utile solamente per risolvere le problematiche specifiche, ma aiuta anche ad instaurare un rapporto di arricchimento e rispetto reciproco tra professore e studente. In particolare, allo studente viene dato il modo di interloquire con il professore in modo costruttivo e responsabile. Si riesce così ad attutire (certo non eliminare) quella tendenza sempre più comune tra studenti e famiglie a dare la colpa al professore: “il prof mi odia”, “lei ce l’ha con nostro figlio” e via andare. Il risultato educativo non può che essere danneggiato dalla mancanza di un sistema di feedback.
 
I risultati del nostro sistema educativo
E a proposito di risultati, come si posiziona il nostro sistema educativo? Ogni tre anni l’OCSE pubblica i risultati dei test PISA, strumento per confrontare i sistemi educativi nazionali. La nuova edizione verrà pubblicata solo a Dicembre: la più recente è dunque l’edizione 2013. Nel 2013, questi test hanno coinvolto 38.142 studenti italiani di 15 anni e 1.186 istituti scolastici. In tutti i campi (lettura, matematica e scienze), gli studenti italiani ottengono un punteggio inferiore alla media OCSE e inferiore agli altri principali paesi europei, quali Francia, Germania e Regno Unito. L’Italia si posiziona così 26-34esima in lettura, 30-35esima in matematica, e 28-35esima in scienze su 65 paesi aderenti al progetto PISA. Non tutto però è negativo: nel periodo 2006-2012 l’Italia ha ottenuto uno dei progressi più rapidi nei punteggi di matematica e scienze (un miglioramento rispettivamente di 20 e 18 punti), recuperando così terreno. Inoltre, importanti eccellenze sono presenti sul territorio: gli studenti di Trento, del Friuli Venezia-Giulia e del Veneto ottengono punteggi ben superiori alla media OCSE. La presenza di eccellenze, tuttavia, è più che contro-bilanciata dalla performance del resto del territorio. Allarmante in particolare è l’ampio e crescente divario tra Nord e Sud.
 
Equità
Un punto di forza su cui il nostro sistema scolastico può sicuramente contare più di altri paesi è l’equità. Vivendo due anni nel Regno Unito, sono entrato in contatto con una società ancora fortemente classista. Ottenere un lavoro ben pagato è molto più facile se esci da una grande università come Oxford, Cambridge o la LSE di Londra. Entrare in una di queste università è però molto meno difficile se hai studiato in una scuola privata, con professori più pagati, strutture più moderne, programmi più avanzati e un maggiore supporto. Studiare in una scuola privata è però molto costoso, e poche famiglie se lo possono permettere. È così che si arriva poi ad avere un gran numero di conferenze, articoli e dibattiti sull’inserimento di quote nelle ammissioni universitarie per aiutare gli studenti delle scuole pubbliche e idee simili. Il sistema italiano è sicuramente più equo. Provato anche statisticamente. Nei test PISA, la variazione dei risultati nei test attribuita alle differenze socio-economiche è del 15% (media paesi OCSE). In Italia, si ferma al 10%.
 
Male, ma non malissimo; bene, ma non benissimo
C’è chi si copre gli occhi col prosciutto e non ammette le problematiche presenti. C’è chi è pessimista di natura, e non riesce a vedere gli aspetti positivi della situazione. Non penso di essere né l’uno, né l’altro. Il sistema educativo italiano presenta delle gravi carenze, che devono essere affrontate con urgenza. Strutture fondamentali fortemente carenti e investimenti per migliorarle insufficienti; una profonda mancanza di specializzazione nelle materie studiate e la grave assenza di materie alternative come economia, statistica e simili; la bassa attenzione alle nuove tecnologie e ai nuovi campi di studio come la programmazione informatica; le opportunità mancate nella valorizzazione degli istituti tecnici; un rapporto professore-studente sempre meno rispettoso. Tutti questi fattori pesano come un macigno sul sistema scolastico italiano e sui risultati che ottiene a livello internazionale. Allo stesso tempo, però, gli studenti italiani hanno l’opportunità di ottenere un bagaglio culturale estremamente ampio e formativo, anche tramite lo studio di materie che vengono considerate “inutili” nel mercato del lavoro; alcuni istituti riescono a trovare le risorse per creare programmi didattici innovativi in nuovi campi di conoscenza; i risultati nei test internazionali sono in veloce miglioramento e alcune zone d’Italia eccellono al di sopra della media OCSE; e l’Italia può contare su un sistema scolastico fortemente più equo di altri sistemi in paesi occidentali. In poche parole, male ma non malissimo, bene ma non benissimo. La necessità e la possibilità di migliorare il sistema educativo ci sono; la volontà?

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