La mutazione degli ecosistemi nelle grandi città del mondo (I parte). Tra fermento e sterilità, tra miliardari, startupper e poveri, affinché le capitali mondiali includano e non escludano

Richard Florida è direttore del Martin Prosperity Institute, professore di Business and Creativity alla Rotman School of Management dell’University of Toronto e, soprattutto, è l’autore di due saggi molti interessanti. Il primo, del 2014, intitolato The Rise of the Creative Class, e il secondo, del 2017, tema di questa riflessione, The New Urban Crisis (How Our Cities Are Increasing Inequality, Deepening Segregation, and Failing the Middle Class-and What We Can Do About It). La sua “fotografia” di partenza appartiene probabilmente a tutti i frequentatori seriali delle grandi capitali planetarie, almeno ai più sensibili e attenti o a quelli che ancora ascoltano le parole dei tassisti. Dice infatti che ogni volta che ha visitato Londra, attraversandola dall’aeroporto ad Hyde Park e viceversa, i tassisti ripetono sempre la stessa litania. “Lo vede quel edificio?” indicando una moderna torre di vetro accanto al Mandarin Oriental. “Alcuni appartamenti costano anche più di 50 milioni di sterline. E nessuno ci vive perché è sempre tutto buio”.
La questione è legata all’élite dei super-ricchi mondiali che, di fatto, grazie ai loro patrimoni sterminati, hanno “invaso” le zone più prestigiose di Londra, New York e Parigi. Per una plutocrazia che non riguarda solo i nuovi grandi, enormi imprenditori della new economy e delle nuove tecnologie ma arriva fino agli attori di Hollywood, ai grandi campioni dello sport e ad artisti e cantanti, che spesso, ironia della sorte, hanno costruito la loro carriera raccontando i tormenti dei giorni con gli affitti a buon mercato, le bevande a basso costo e il nirvana creativo dirompente mentre oggi frequentano solo questi luoghi ultra-esclusivi (boutique del lusso comprese). Luoghi che il cantante e musicista David Byrne ha ben sintetizzato chiamandoli “cupole di piacere per i ricchi”.
Va detto che lo spazio urbano e il suo ecosistema creativo, da decenni, nelle grandi capitali del mondo occidentale, vive un continuo equilibrio precario, alimentato anche da artisti, musicisti e altri creativi che, come negli anni Settanta e Ottanta, hanno contribuito a trasformare quartieri malandati in zone poi diventate alla moda. Inevitabilmente – basti pensare a SoHo e ai suoi odierni negozi di lusso – è un fenomeno che dal fermento passa alla sterilità. Ma ciò non significa che intere città siano diventate a creatività zero. Difatti, secondo Richard Florida, nonostante l’afflusso di gente super-ricca in questi nuclei urbani, non vi è alcuna prova di una sostanziale diminuzione delle capacità creative complessive delle città in questione. Anzi, la creatività si muove da un quartiere all’altro. E, nel tempo, la trasformazione in corso può veramente mettere in pericolo l’impulso creativo generale, ma ciò non è ancora accaduto.
Entriamo nello specifico.
I super-ricchi globali non stanno realmente comprando “case” nel senso convenzionale del termine, ossia per viverci, utilizzarle e farci crescere le loro famiglie. Stanno semplicemente diversificando i loro investimenti, parcheggiando in luoghi più sicuri di altri i loro soldi. Faccio così anche io nel mio piccolo, non ultimo con l’appartamento che ho acquistato a Bangkok (una delle capitali del turismo mondiale). In questo senso, New York e Londra hanno un’altissima concentrazione di persone ricchissime. New York conta più di 100 miliardari in dollari e Londra ne ha più di 50. Ma il super ricco danneggia davvero le grandi città? No, risponde Florida, semplicemente non ci sono abbastanza super-ricchi per uccidere un’intera città e nemmeno parti importanti di essa. New York City, dopo tutto, ha più di otto milioni di abitanti e circa tre milioni di unità abitative mentre i suoi multi-milionari non riempiono nemmeno la metà delle poltrone del Radio City Music Hall.
 
Segue e termina giovedì 28 settembre.
 
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