Italia messicanizzata?

Diretto, sintetico e quasi mortale. Alberto Forchielli parla senza mezzi termini dell’Italia, dei rischi che corre e delle possibili vie di fuga per riprendersi se solo gli italiani si rimboccassero le maniche. È seguito e ascoltato in mezzo mondo, anche da chi conta. Ecco perché lo abbiamo intervistato. Ma chi è Forchielli? Bolognese, un passato da manager a livello internazionale, è oggi il creatore del Mandarin capital partners, fondo che investe in aziende italiane e cinesi. Vive a Bangkok, ma frequenta spesso anche gli Usa, l’Europa e, naturalmente, l’Italia.

Lei parla ultimamente di messicanizzazione del Belpaese. Cosa vuol dire e perché?
«Molte imprese non saranno in grado di pagare tasse, contributi e costi del lavoro e scivoleranno nel nero con imprenditori e lavoratori stranieri. La criminalità organizzata si allargherà. Le imprese moderne esportatrici si asserraglieranno in distretti circondate da sofisticati sistemi di sicurezza. La sfida non sarà una crescita del pil misurato con parametri canonici che non funziona, ma la ricerca di un equilibrio tra queste tre forze per evitare che l’illegalità si mangitutto e ci riduca in una terra di nessuno. In Messico questa sfida è all’ordine del giorno, come lo è in Italia, ma non vogliamo rendercene conto»
Di chi sono le colpe?
«Di tutti, italiani compresi, che hanno un basso tasso di civiltà sociale ed educazione».
Cosa abbiamo sbagliato a livello economico per arrivare a questa crescita e produttività stagnanti?
«Non abbiamo investito in educazione, abbiamo sprecato risorse pubbliche e abbiamo caricato gli sprechi sulla classe produttiva che si restringe, la burocrazia non lavora e non funziona, non abbiamo formulato leggi adeguate a combattere la criminalità anche spicciola, non abbiamo investito in carceri per tenere le strade pulite eccetera».
Cosa deve fare la politica per dare al Paese le stesse opportunità di quelli più sviluppati?
«Deve avere il coraggio di dire la verità, invece che comprare consenso con fondi pubblici, deve educare, deve dare l’esempio, deve essere un sacrificio, non un mestiere».
L’Unione europea, in ottica futura, è un vincolo o un’opportunità?
«È una necessità: senza, l’Italia verrebbe risucchiata dall’islamizzazione».
Serve una politica economica?
«Sarebbe servita tanto, adesso corriamo solo a mettere le pezze a banche, Ilva, Alitalia, Sole 24 Ore, non esistono più le risorse per fare una politica economica proattiva».
A livello microeconomico da dove ripartiamo?
«Io credo che serva un grande trauma perché la gente capisca finalmente che si deve lavorare meglio e più a lungo».
Lavorare di più e meglio, con maggiore qualità, è la sua ricetta. Può fare qualche esempio?
«Meglio significa più attenzione e dedizione anche nelle cose piccole. Di più significa meno pause caffè, meno file a timbrare il cartellino, meno permessi malattia inesistenti, meno Facebook durante l’orario di lavoro o telefonate personali, in pensione più tardi e così via. Qualità significa usare il cervello e proporre miglioramenti, prendere responsabilità, andare oltre il mansionario».
Le nostre multinazionali tascabili o meno ci possono dare una mano?
«Hanno già fatto tanto, tutto, di più non ne nasceranno, molte invece se ne andranno trasferendo la sede direzionale in altri paesi, oltre che la produzione rimasta in Italia».
Dobbiamo globalizzarci di più, anche guardando all’Asia?
«Non c’era dubbio, ma ormai quello che potevamo fare in Asia l’abbiamo fatto, siamo troppo piccoli per fare di più. Adesso avremmo bisogno di avere il mondo che viene da noi ma con questo mix di criminalità, burocrazia e vincoli sindacali è utopistico pensarlo».
Qual è il ruolo dei servizi per crescere, anche a livello internazionale?
«Enorme, ma noi non siamo presenti nei servizi chiave quali la finanza, il software, i media, le telecomunicazioni. Ci rimane solo il turismo, che perde colpi e quote di mercato. Si potrebbe riprendere il cammino con grandi investimenti nella scuola e nell’università, ma mancano i soldi che servono per comprare consenso e rattoppare i buchi, così il debito aumenta e il paese arretra, troppi i conti in sospeso che ora vengono a galla».
Quali aziende e settori in Italia possono beneficiare maggior- mente della rivoluzione digitale?
«Tutti, ma la tecnologia chiave non è mai la nostra e nell’applicazione siamo sempre indietro, è relativo, bisogna essere meglio degli altri, ma mai lo siamo».
Quanto pesa la gestione familiare di troppe nostre imprese e quindi la mancanza di managerialità vera?
«Un disastro. Il papà quasi sempre ha fatto l’impresa e i figli viziati l’hanno distrutta, salvo casi rari. È una rarità genetica che a un padre eccezionale segua un figlio altrettanto eccezionale, e per fare gli imprenditori in Italia servono persone super eccezionali e ne nascono pochi che intelligentemente capiscono presto che andare all’estero è la cosa migliore».
Lei è stato per tanto tempo un manager. Quale ruolo possono e devono avere i manager nel riscatto economico del Paese?
«Un ruolo chiave, ma sono spesso soffocati dall’imprenditoria familiare, tant’è che nelle poche grandi imprese italiane non danno il meglio di sé, in quelle straniere eccellono. Purtroppo la capacità di lavorare e gestire organizzazioni complesse non è nel dna italico. Nella Seconda guerra mondiale avevamo una Marina più grande di quella inglese nel Mediterraneo, ma facemmo più danni agli inglesi con un manipolo di uomini nei mezzi d’assalto che con tutto il resto della flotta. Si studi la sconfitta di Adua o Caporetto o le tragiche offensive sull’Isonzo della Prima guerra mondiale: generali
cretini, ufficiali di complemento e soldati coraggiosi che operano nella più totale disorganizzazione, questa è sempre stata l’Italia».
Qual è il modello manageriale e quali le caratteristiche del manager che servono oggi?
«Imprenditoriali, creativi, orientati allo spin-off continuo: abbiamo bisogno che i manager si trasformino in imprenditori, ci mancano le nuove imprese, non i bravi manager».
Ci sono imprese, imprenditori e manager italiani meno noti, ma vincenti a livello globale? Chi citerebbe ad esempio?
«Pier Paolo Pandolfi, capo della ricerca sul cancro a Harvard. Dante Roscini, professore a Harvard. Stefano Pessina e Ornella Barra nella distribuzione farmaceutica. Lei sa che fu Amadeo Giannini, un italiano, a fondare la Bank of America?».
L’Italia ha forse bisogno di più diversity, cioè di puntare di più su giovani, donne, persone di altre nazionalità e culture?
«Ovvio, ma da noi viene il peggio, gente con bassa produttività, scarsa attitudine al lavoro, ad alto tasso criminalizzante. Del resto le nostre scuole non incoraggiano, la mancanza di galere fa dell’Italia il paradiso della criminalità e del lavoro in nero, il Messico d’Europa insomma».
Il lavoro è vissuto in Italia come un problema per tanti, se non per tutti: quelli che non lo trovano ma anche quelli che lo hanno ma non è più “fisso”. Abbiamo reali motivi per lamentarci? Quali miglioramenti è realistico attendersi?
«Nel breve peggiora, non migliora. Il dramma è proprio far capire alla gente che se si rimboccano le maniche oggi non ne vedranno mai i benefici se non le generazioni future, un hard sell in termini politici!»
I sindacati hanno ancora un ruolo?
«Proteggono i pensionati a scapito dei giovani, missione nobile, ma non proiettata al futuro. Sono autoreferenziali come la Confindustria, hanno esaurito gran parte del loro ruolo storico, devono fare una scelta chiara tra pensionati e lavoratori perché prosperano nella più totale contraddizione».
Ai giovani cosa consiglia per affrontare il futuro lavorativo?
«Di imparare un mestiere tradable, ossia esercitabile ovunque nel mondo, e di cercare la fuga dall’Italia».
I cervelli in fuga dobbiamo temerli, “biasimarli” o farli fuggire, perché poi magari tornino, e attrarne sempre di più?
«Per definizione sono cervelli e sanno meglio di noi cosa fare e come non farsi prendere in giro».
E agli italiani in generale?
«L’Italia rimane un paese fantastico, se l’economia non cresce, serriamo le righe per viverlo bene anche con meno disponibilità materiali. Diamo priorità a sicurezza, ritroviamo le vecchie solidarietà di paese, colleghiamoci con il mondo, rimettiamoci in marcia per un lungo cammino senza aspettare governi miracolo, o altre soluzioni funamboliche tipo uscire dall’euro o dall’Europa. Rimettiamoci tutti a studiare nel tempo libero e spegniamo la tv».
Qui il PDF
Alberto Forchielli intervistato per Manager Italia

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