I nuovi robot sempre più simili all’uomo, pelle compresa!

Alla base delle invenzioni, molto spesso, c’è l’immaginazione. Nel senso che prima si immagina qualcosa che non c’è e di cui se ne immagina il bisogno – con il bisogno che si inventa di sana pianta, come ha fatto la Apple con l’iPad – e poi lo si inventa. E fonte di ispirazione nella storia più o meno recente dell’umanità sono stati anche i romanzi, i film e le serie tv di fantascienza.

Basti, per esempio, citare il leggendario “Blade Runner” del 1982, diretto da Ridley Scott e interpretato, tra gli altri, da Harrison Ford e Rutger Hauer e liberamente ispirato al romanzo Il cacciatore di androidi (1968) dell’altrettanto leggendario guru della fantascienza Philip K. Dick. Dove i robot “replicanti” sono del tutto identici agli esseri umani, estetica fisica e pelle compresa. E forse è proprio dal mondo immaginato prima da Philip K. Dick e poi da Ridley Scott che ha tratto spunto il Faboratory dell’Università di Yale, laboratorio di Soft Robotics che appunto sta portando avanti una ricerca per rendere la “pelle” dei robot più morbida, flessibile e versatile. In pratica uguale a quella umana e come la nostra resistente ma morbida e deformabile e capace di adattarsi a compiti diversi.

Ecco che in questo caso non è solo questione di individuare un nuovo “tessuto”, si parla di sensori del robot, motori elettrici o pneumatici, eccetera, che consentono al robot di replicarci in tutto per tutto, muovendosi e interagendo con il suo ambiente. E se l’uomo ha naturalmente sensori neurali per recepire, per esempio, temperatura e pressione, con i muscoli che fungono da attuatori del movimento, nei robot, ovviamente, va tutto replicato artificialmente, per una delle sfide più ardue dei nostri tempi. Per dire, quanto sono ancora goffi i movimenti dei robot quando li vediamo in qualche tg o approfondimento tv o su Internet?

Qual è la sfera di applicazione di tali ricerche del Faboratory dell’Università di Yale?

In primis, pensiamo a un esoscheletro “morbido” in chiave medico-industriale che, ad esempio, possa aiutare la riabilitazione dopo un incidente. E l’ambiente spaziale è un’altra leva fondamentale, pensando a sistemi di robotica morbida per gli astronauti. Perché, semplicemente, inviare un – costosissimo – carico di razzi con un robot costruito con metalli (pesanti) per il recupero di oggetti nello spazio o per eseguire riparazioni costa di più di un robot più leggero grazie alla sua costituzione “morbida”, con i suoi sensori modulari, adatti a una gamma variegata di attività, comprese le tute capaci di proteggere gli astronauti quando accelerano o decelerano rapidamente nelle navicelle spaziali o in ambito extra-veicolare.

Chiaramente ci sono ancora una montagna di problemi da risolvere. In primo luogo va elaborata l’alimentazione esterna. Servono infatti batterie più piccole in grado di alimentare i dispositivi indossabili in questi ambienti estremi. E poi va consolidato il processo di produzione quando sarà a regime e la stampa in 3D – che ormai conosciamo bene – potrebbe essere la panacea. L’hardware robotico – in grado di eseguire una gamma impressionante di movimenti precisi – rappresenta un’altra sfida perché la tecnologia attuale è al limite. I software per tali controlli sono da realizzare, anche perché le variabili sono tantissime (il corpo del robot può cambiare forma e deformarsi mentre si muove a seconda dell’ambiente).

A prescindere da tutte le variabili, la ricerca di Faboratory ha l’ambizione di ridefinire il modo in cui pensiamo ai robot e alla robotica. Perché – ecco il tema principale – a un certo punto, anziché imitare gli esseri umani, i sistemi automatizzati potranno andare oltre, anche pensando, attraverso l’utilizzo di altre tecnologie, come l’intelligenza artificiale, all’auto-assemblaggio o all’auto-riparazione. Sempre sotto il segno che alla base delle invenzioni, molto spesso, c’è l’immaginazione.

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