Grande è meglio

 
Le grandi compagnie sono complessivamente più virtuose delle piccole imprese
 
Oggi, tanto per cambiare, ve ne dico una controcorrente. Ben vengano i monopoli della Silicon Valley. Nel senso che ho una visione molto più benigna delle grandi società tech e concordo con quanto sostiene il mio caro amico Rob Atkinson – e sono ben conscio che la gran parte di voi mi travolgerà con una valanga di merda e quindi attivo senza esitazione il #contastronzi –, ossia che “Grande è meglio”.
Lo spunto è l’intervista che Rob ha rilasciato a Viviana Devoto per La Lettura del Corriere della Sera.
“Mostri di potere – premette Viviana Devoto –, in grado di determinare l’agenda politica, di influenzare importanti votazioni e, alla base, condizionare e controllare le vite degli utenti «normali». Il potere delle cinque aziende partite dalla Silicon Valley – Google, Apple, Facebook, Amazon e Uber (cioè le imprese che formano l’acronimo Gafa più Uber) – è diventato un monopolio: una realtà che inizia a essere avvertita come una minaccia. Del tutto fuori dal coro dei demonizzatori, con una presa di posizione molto provocatoria, si colloca Robert Atkinson, nato in Canada, che ha lavorato come esperto di tecnologia e consigliere al Congresso americano durante le amministrazioni democratiche Clinton e Obama, ed è oggi presidente dell’Itif, una fondazione non-profit con base a Washington, che costituisce un’autorità in materia di Information technology e innovazione”.
Ecco il pensiero di Atkinson: “Prima di maledire le grandi compagnie americane come fanno alcuni politici dovremmo preoccuparci di guardare i dati sulla nostra economia. Le più importanti aziende della Silicon Valley sono produttive, pagano meglio i propri impiegati, offrono agevolazioni come tutela sanitaria e straordinari. In più sono destinate a non fallire mai. Tutto questo si traduce in prezzi più convenienti per i consumatori”.
Tesi che Atkinson approfondisce nel libro Big is Beautiful, scritto con il professore Michael Lind (The Mit Press, 2018), che, sintetizzando, dice: “Le grandi corporation non sono dei mostri” e poi smonta il luogo comune che siano le artefici di aspetti negativi come l’innalzamento del costo della vita e l’acuirsi delle disuguaglianze sociali.
“Le grandi compagnie – spiega infatti Atkinson – investono di più nella formazione e il bacino da cui attingono garantisce maggiore diversità per tutelare le fasce svantaggiate, a livello di sesso, razza e di stato sociale, rispetto a quello che possono fare le piccole imprese. Parlando di disuguaglianze sociali e dell’innalzamento – per esempio – del costo delle case nella Silicon Valley, avrebbe dovuto essere il governo americano a preoccuparsi di creare un polo edilizio più forte che potesse accogliere la domanda durante il boom del tech in California. Sulle disuguaglianze c’è poi un testo di riferimento che consiglio a tutti, La nuova geografia del lavoro del ricercatore italiano Enrico Moretti, professore di economia a Berkeley, che spiega come la crescita e lo sviluppo di alcune aree si influenzino a vicenda, moltiplicando le opportunità. ‘Per ogni posto di lavoro nuovo alla Apple — dice Moretti — ne vengono generati altri cinque in settori tradizionali’. Questi sono dati, signori, che non possono essere ignorati’”.
Al contrario, continua Atkinson: “Le piccole aziende non sono la causa della prosperità in America. Ho incominciato la mia ricerca proprio partendo da alcuni assunti di una certa classe politica, alimentati da un misto di populismo e di ideologia del libero mercato, che descriveva le grandi compagnie come dei mostri, mentre i governi sono sempre andati molto oltre nel sostenere e tutelare modelli deboli di business, che poi erano destinati a fallire. Ogni presidente moderno ha cercato di sostenere i ‘piccoli’ e ogni presidente moderno si è clamorosamente sbagliato. Il progresso e l’ascesa economica arrivano da altre parti. Secondo i dati del centro di statistiche sul lavoro, le imprese con più di 500 impiegati pagano i propri dipendenti il 77% in più delle piccole aziende. In generale, le “grandi marche” sono più produttive per l’economia, possono permettersi di vendere a prezzi competitivi, e pagare stipendi migliori”.
Poi Viviana Devoto gli pone la domanda che più ci interessa: “come vede il futuro dell’innovazione da qui a dieci anni?” E lui, con lungimiranza, risponde: “credo che le grandi compagnie troveranno il modo di cambiare e innovarsi” e sul modello Silicon Valley riproducibile altrove dice “molti luoghi del mondo… hanno già adesso centri tecnologici, autentici hub, molto attivi: il Brasile, il Giappone e, in Europa, Stoccolma e Londra. Il futuro potrebbe essere certamente in Cina: a Pechino c’è un centro molto dinamico che già sta producendo ricchezza e potrebbe certamente sfidare la California. L’Europa è penalizzata soprattutto dalle leggi in materia di privacy”.
Mentre l’Italia è penalizzata da ben altro. E le sue storture strutturali e congiunturali, al contrario delle grandi compagnie americane, molto probabilmente, se non ci porteranno al fallimento, di sicuro si traducono già da tempo in prezzi più alti per i consumatori.
E poi, diciamola tutta, la verità è che piccolo fa cagare! Di conseguenza, in Italia, dove ci vantiamo delle multinazionali “tascabili”, siamo nella merda. E questo spiega perché le grandi multinazionali straniere comprano le nostre aziende a mani basse, per una nostra atavica incapacità di competere che ci farà diventare una colonia.
 
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