CONQUISTARE IL MONDO COSTA. Economia o geopolitica, questo è il dilemma (americano).

 
Se la vittoria alle presidenziali di Donald Trump del 2016 ha un valore oggettivo, è quello che un gran numero di elettori americani ha “certificato” la propria contrarietà in primo luogo nei confronti della globalizzazione e in secondo luogo nei confronti delle decennali strategie di geopolitica del proprio Paese.
Ciò non sorprende per due ragioni: perché l’americano medio oggi è più povero di ieri e perché la storia degli Stati Uniti fin dalle sue origini è caratterizzata da un susseguirsi di fasi protezionistiche e di libero scambio, con illustri fautori per entrambe le teorie economiche e le relative fasi.
In uno stringato excursus storico, si inizia dal fondatore dell’economia politica liberale, Adam Smith, con il suo celeberrimo La ricchezza delle nazioni, pubblicato nel 1776 e manifesto del “laissez faire”. Con Thomas Jefferson, che vedeva il suo Paese principalmente come un produttore agricolo e si muoveva per il bene dei piantatori del Sud – che dipendevano dai mercati esteri – e che ne sposava le teorie sul governo minimo (per poi cambiare idea con la Guerra anglo-americana del 1812 diventando un protezionista dell’industria statunitense). Mentre Alexander Hamilton, uno dei padri fondatori, primo segretario al Tesoro e oggi ritratto sul biglietto da dieci dollari, era per le sovvenzioni a sostegno dello sviluppo delle industrie tecnologiche e manifatturiere del nord e George Washington, che indossava soltanto indumenti prodotti sul suolo nazionale, si schierò con lui.
Così facendo, un passo alla volta, già negli anni Cinquanta del Novecento gli USA erano diventati il Paese più ricco del mondo. Poi, con la fine della Seconda guerra mondiale – e con l’Europa e il Giappone da ricostruire – l’industria americana, più forte che mai e senza concorrenti, non aveva più nessun bisogno di politiche protezionistiche innescate dal proprio governo, piuttosto aveva bisogno del resto del mondo come mercato per le sue esportazioni con relative strategie che promuovessero la globalizzazione.
Per i trent’anni successivi, gli USA hanno sfruttato enormemente la ripresa mondiale, hanno accompagnato la ripresa tedesca e anche quella giapponese e, nel frattempo, il reddito medio pro-capite americano era raddoppiato rispetto al dopoguerra, mentre la disoccupazione e l’inflazione erano rimaste generalmente basse.
La produttività di altri Paesi è poi aumentata e le circostanze sono cambiate. Soprattutto, a causa della Guerra Fredda, per gli USA è subentrata l’impellente necessità di aiutare gli alleati rafforzando le loro economie, operando in tal senso contro il proprio interesse – o almeno contro quello prettamente economico – in favore di quello geopolitico, avvallando tutta una serie di operazioni finanziariamente sfavorevoli. Ecco quindi che nel 1971 si registra il primo disavanzo commerciale dal 1888 per la cifra di 1,3 miliardi di dollari; per un deficit commerciale che nel 1980 tocca i 20 miliardi di dollari.
È chiaro che questa bilancia sfavorevole non è solo dettata da cicliche strategie governative di geopolitica. Dinamiche decisive arrivano anche dalla globalizzazione sempre più spinta e dalla comparsa della Cina come superpotenza economica e pure dallo sviluppo tecnologico generale; senza entrare nel dettaglio, basti pensare a come l’utilizzo dei container e la costruzione di enormi navi-cargo abbiano contribuito a ridurre drasticamente i costi del trasporto internazionale. E, non ultimo, la capacità di altri Stati, su tutti il Giappone, che sviluppa la metà del deficit commerciale degli USA, di supportare l’export delle proprie industrie con investimenti pubblici mirati, oltre che proteggendo il mercato interno e applicando politiche monetarie per sottovalutare la moneta locale rispetto al dollaro. Dopo i nipponici, ad applicare queste regole per una impetuosa crescita economica e una bilancia commerciale favorevole sono stati i coreani del sud. Mentre, sempre dentro il calderone della globalizzazione, l’espansione di enormi flussi finanziari internazionali e lo sviluppo tecnologico hanno fatto il resto.
Nonostante ciò, è innegabile che gli Stati Uniti abbiano comunque deciso per decenni di sacrificare la loro leadership economico-industriale-tecnologica in favore di strategie geopolitiche. Con successo, va detto. Almeno fino a un certo punto. Puntando altresì su strategie furbe come quella di distribuire le tantissime basi militari – che intorno a loro creano ricchezza e occupazione – su tutto il territorio nazionale.
Ma favorire la geopolitica rispetto agli interessi del proprio popolo funziona quando il reddito medio pro-capite cresce e la disoccupazione scende. Quando invece si verifica l’opposto, come negli ultimi anni, e il benessere della classe media è ormai un lontano ricordo del passato, il popolo di queste logiche non ne vuole più sapere.
E la presidenza Trump è figlia di queste logiche. E di un popolo incazzato.
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