Lo spazzino dello spazio! (II parte)

Il mestiere del futuro?

E chi lo fa? Anche un italiano!

Seguendo l’FDS precedente, approfondiamo il discorso: oltre cinquant’anni di programmi spaziali hanno creato una nuova tipologia di problematica: la gestione dei detriti spaziali o “space debris” nelle tre fasce orbitali: LEO (Low Earth Orbit, orbita terrestre bassa); MEO (Medium Earth Orbit, orbita terrestre media); e GEO (Geostationary Earth Orbit, orbita geostazionaria).

Con l’azienda comasca D-Orbit, che nel settore spaziale ha un ruolo di primordine, avendo brevettato il D3, un dispositivo propulsivo basato su propellente solido che, installandolo prima del lancio, garantisce la rimozione rapida e sicura di un satellite al termine della sua missione, tecnicamente detta “decommissionamento dei satelliti” (inoltre D-Orbit produce anche il D-Raise, dispositivo che posiziona più velocemente i satelliti in orbita).

“Per quanto riguarda i satelliti più lontani – spiega Luca Rossettini, ingegnere aerospaziale, socio fondatore e CEO di D-Orbit –, per esempio quelli usati per le telecomunicazioni o quelli nelle orbite MEO e GEO, data la loro lontananza, non ha senso riportarli sulla Terra. Per questo motivo è stata creata e normata un’orbita cosiddetta “cimitero”, dove i satelliti vengono riposizionati e dove non possono recare danni. In questo caso, noi, attraverso D-Raise, ci occupiamo di spostarli molto rapidamente in tale orbita che è una sorta di discarica spaziale. Mentre per la manovra di deorbitaggio nelle orbite basse, chiamate LEO, il satellite segue una traiettoria diretta verso un punto preciso sulla superficie terrestre non a rischio e vi è anche una regolamentazione specifica che obbliga determinate classi di satelliti a rientrare in questo modo. A oggi l’unica tecnologia che consente di farlo in maniera rapida e controllata è la nostra D3”.

La regolamentazione è sancita dall’Outer Space Treaty (trattato sullo spazio extra-atmosferico), stipulato nel 1967, che ha posto le basi del diritto aerospaziale. Le norme del trattato coprono diverse problematiche: dal divieto di collocare armi di distruzione di massa sui corpi celesti, alle tematiche di responsabilità per gli oggetti mandati nello spazio.

Il mercato fino a qualche anno fa era prevalentemente governativo, a parte l’orbita geostazionaria che per definizione è sempre stata utilizzata da operatori commerciali. La maggior parte dei satelliti sono stati lanciati dai governi, sia in ambito civile sia in ambito militare. Quello che è successo negli ultimi anni è un capovolgimento di questa situazione. Adesso, e sempre di più in futuro, aziende private lanciano i propri satelliti: come, per esempio, One Web che ha in progetto di lanciarne 900.

Come detto, diverse migliaia di nuovi satelliti verranno lanciati nei prossimi 5 anni – teniamo conto che dallo Sputnik, lanciato nel 1957, a oggi sono stati lanciati circa 6.000 satelliti: di questi, circa 400 sono stati lanciati oltre la Terra in traiettorie interplanetarie; dei restanti, solo 800 sono ancora operativi e circa l’85% degli oggetti spaziali appartiene alla classe dei satelliti “morti” (dati: “Upside Risk”, Numero 7, novembre-dicembre 2016).

Questi satelliti “morti” nel piano orbitale rischiano di creare problemi a tutta la costellazione, impedendo la consueta erogazione dei servizi da parte dei satelliti delle aziende. I satelliti morti vanno incontro a consunzione e possono generare detriti che devono essere evitati dai satelliti funzionanti, che durante la manovra necessaria a evitare un detrito non possono erogare i servizi e consumano propellente. Il “decommissioning” o il cosiddetto “orbit clearance”, ovvero la rimozione dei satelliti dall’orbita quando non funzionano più, è un problema cruciale.

Pensando ai satelliti obsoleti in orbita, esiste un modo per poterli recuperare e per limitare la problematica ambientale che generano e genereranno in futuro? “Si tratta di una nuova frontiera”, risponde Luca Rossettini. “Molte università e agenzie spaziali stanno studiando tecnologie per andare a recuperare i vecchi satelliti o quelli non funzionanti. Questo tipo di missioni vengono definite ADR (Active Debris Removal). Sono stati studiati i modi più disparati per il recupero attivo dei detriti e dei satelliti: bracci robotici, arpioni, reti, eccetera. E diverse aziende, noi compresi, stiamo sviluppando diversi prototipi, tuttavia non esiste ancora un mercato ADR”.

Quindi, tenendo conto di questi 6.000 satelliti, dei quali indicativamente ce ne sono ancora in orbita 4.000 (alcuni degli altri sono rientrati, altri sono esplosi e altri sono andati a sbattere uno contro l’altro generando frammenti), attualmente sappiamo che vi sono oltre 20.000 detriti (“Upside Risk”, 2016). Questi sono monitorati. Sappiamo dove sono grazie a telescopi e radar. Però milioni di frammenti non abbiamo assolutamente idea di dove si trovino. Anche un piccolo frammento, che nello spazio viaggia dai 20.000 ai 30.000 km/h, porta con sé un’energia cinetica talmente alta che potrebbe distruggere un satellite. Ecco che riuscire a smaltirli apre scenari di business colossali!