L’India, la lunga partita dei confini

di Sauro Mezzetti, pubblicato su “La rivista dell’ Arel” – Numero 3 del 2018 intitolata TREGUA (Qui il PDF)

L’India condivide oltre 3000 km di confini con la Cina, in gran parte contesi, soprattutto lungo la linea McMahon, stabilita nel 1914 in base a un accordo tra l’Impero Britannico e l’amministrazione autonoma tibetana, che però la Repubblica Popolare Cinese non riconobbe quando prese il controllo formale del Tibet, nel 1951. Inoltre, la fine della dominazione coloniale ha lasciato confini “caldi” non solo con la Cina, in quanto la separazione del Pakistan ha diviso due Stati importanti e popolosi come il Punjab e il Bengala e creato una contesa linea di controllo in Kashmir.

Dall’amicizia al conflitto

Al momento dell’indipendenza la politica estera indiana era caratterizzata dalla necessità di avere stabili relazioni alle frontiere – che già erano compromesse dalla creazione del Pakistan – al fine di dedicarsi allo sviluppo economico e alla costruzione di uno Stato laico. Per questo motivo l’amicizia con la Cina divenne uno dei capisaldi di questa politica. Nehru aveva sviluppato un solido legame con Chiang Kai-shek fin dagli anni dell’invasione nipponica della Cina e della Seconda Guerra Mondiale con l’idea di sviluppare un nuovo assetto post-imperialista dell’Asia. Nel 1947, alla vigilia dell’Indipendenza, si tenne a Delhi una conferenza per le Relazioni Asiatiche con la partecipazione di delegazioni di movimenti di liberazione e organizzazioni da 34 paesi diversi.

La Cina era rappresentata sia da esponenti del Kuominantag che del Partito Comunista. La conferenza si concluse con la proposta di creare un’organizzazione permanente per le relazioni asiatiche (ARO) che avrebbe dovuto riunirsi due anni dopo in Cina1. La presidenza fu affidata a Nehru e come segretari generali furono eletti l’indiano B. Shiva Rao e il Cinese Han Lih-Wu. Con l’avvento della Repubblica Popolare Cinese quest’organizzazione non prese mai piede. Tuttavia, i capisaldi della politica estera di Nehru che vedeva la Cina come l’interlocutore principale dell’India in Estremo Oriente rimasero immutati e presero infine forma nella Conferenza di Bandung del 1955 che diede vita al movimento dei paesi non allineati. La conferenza di Bandung, presieduta dal premier indonesiano Sukarno, rappresentò il culmine della cosiddetta Hindi-Chini, la politica di buone relazioni tra i due giganti asiatici e fu l’occasione per Nehru di presentare Zhou Enlai, che aveva conosciuto durante una visita ufficiale in Cina l’anno precedente, ai leader degli altri paesi emergenti.

Questa stagione, però, ebbe una breve durata. Nel 1950-1951 la Repubblica Popolare Cinese riprese il pieno controllo sul Tibet – che di fatto godeva di una larga autonomia dopo la caduta della dinastia Qing – e per la prima volta i due paesi si trovarono a dividere un lungo confine nella parte orientale dell’India. Sul versante occidentale, India e Cina condividevano un altro confine nel Kashmir, conteso tra l’altro col Pakistan e una porzione di territorio

denominato Akshai Chin, di oltre 37.000 kmq, reclamata da tutti e tre i paesi ma sotto il controllo della Cina. La tensione tra India e Cina cominciò a crescere nella seconda metà degli anni Cinquanta, quando Pechino costruì una grande arteria che collegava Xinjiang e Tibet attraversando anche il territorio dello Aksai Chin. La tensione crebbe ulteriormente quando il Dalai Lama si rifugiò in India nel 1959, costituendo un governo in esilio, dopo una fallita rivolta in Tibet. Ci fu una visita di Zhou En Lai a Delhi, nel 1960, e incontri bilaterali con Nehru, che si conclusero con un sostanziale nulla di fatto durante i quali il governo indiano non percepì i segnali negativi.

L’improvviso attacco cinese nell’ottobre del 1962 trovò, così, l’India totalmente impreparata e i cinesi penetrarono facilmente nei territori da loro reclamati, occupando anche l’Arunachanal Pradesh, che richiesero come Tibet meridionale. A un mese di distanza dall’attacco, la Cina annunciò un cessate il fuoco unilaterale e, sul versante orientale del Tibet, ritirò nuovamente le truppe alla linea di controllo precedente il conflitto. I motivi per cui lo fece non sono mai stati chiari, e sono stati interpretati soprattutto come un messaggio di disponibilità cinese a riconoscere i confini orientali secondo la linea McMahon in cambio di una rinuncia delle pretese dell’India sui territori dell’Aksai Chin, che concernono il versante occidentale in Kashmir2.

La sconfitta con la Cina rappresentò un dramma nazionale e soprattutto una tragedia personale per Jawaharlal Nehru e la sua visione di un grande movimento dei paesi emergenti, non allineati, sulla base dell’amicizia sino-indiana. Le conseguenze per l’India furono importanti anche sul piano economico. Dopo due piani quinquennali (1951-1961) caratterizzati da un moderato successo, il terzo piano quinquennale entrò in crisi per le conseguenze del conflitto del 1962. La crisi si sarebbe ulteriormente aggravata dopo un nuovo conflitto, nel 1965, sempre per questioni di confine, ma questa volta con il Pakistan, sanzionando il fallimento del terzo piano quinquennale e compromettendo lo stesso modello di sviluppo economico Nehruviano.

La crisi latente

Negli anni seguenti ci furono altre crisi militari tra India e Cina, anche se di minore intensità: nel 1967, ai confini del Sikkim – all’epoca un protettorato indiano e oggi parte integrante dell’India – e nel 1987, dopo che il governo indiano decise di trasformare il territorio dell’Arunachal Pradesh, reclamato dalla Cina come Tibet meridionale, in uno Stato dell’unione a tutti gli effetti.

Negli anni Ottanta ci furono anche due tentativi di risolvere la questione dei confini, sulla base, da parte cinese, di riconoscere i confini orientali indiani in cambio del riconoscimento indiano di quelli occidentali, ma in entrambi i casi il dialogo, prima con Indira Gandhi e poi con Rajiv Gandhi non andò in porto3. La visita di Rajiv Gandhi a Pechino, nel 1988, rappresentò un importante momento storico che condusse poi a un accordo, nel 1993, in base al quale «entrambi i paesi si impegnavano a contenere le forze militari al di là delle rispettive linee di controllo a un livello minimo compatibile per relazioni amichevoli e di buon vicinato»4. Le modalità di questa riduzione avrebbero dovute essere concordate tramite consultazioni reciproche e per fasi. In realtà, le attività di pattugliamento ai confini rimasero molto elevate, ci furono di nuovo tensioni nel 2013 quando truppe cinesi e indiane stabilirono i propri campi a 300 metri di distanza in una zona contesa dell’Aksai Chin, che si risolse con un nuovo accordo, nello stesso anno, in base al quale le due parti si impegnavano a informarsi reciprocamente prima di intraprendere attività di pattugliamento in territori contesi, in modo da evitare il rischio di incontri frontali.

La crisi militare più seria si è infine verificata tra giugno e agosto 2017, in cui forze armate cinesi e indiane si sono trovate a confronto per una questione relativa ai confini tra il Bhutan e la Cina, dopo che quest’ultima ha iniziato a costruire una strada nella regione di Doklam – una porzione di territorio di circa 90 kmq reclamata anche dal piccolo Stato himalayano. L’India è intervenuta in base ad alleanze e accordi di amicizia con il Bhutan stipulati nel 1949 e nel 2007, ma anche per contenere una sempre maggiore pressione cinese in Asia meridionale e per la propria sicurezza, in quanto l’eventuale utilizzo militare della nuova strada avrebbe esposto l’importante regione di Siiliguri, lo stretto corridoio che collega il Bengala con le regioni del nord-est del paese a una situazione strategica di estrema fragilità. Le truppe indiane sono entrate nel territorio del Doklam per prevenire la costruzione della strada, un intervento definito come un’invasione da parte del governo Cinese. La presenza di entrambi gli eserciti nella regione ha creato un lungo confronto diplomatico, facendo riecheggiare da entrambe le parti le memorie del conflitto del 1962. Il ministro della Difesa indiano Arun Jatley ha sottolineato che l’India attuale è diversa e ben più preparata di quella del 1962, mentre la stampa cinese ammoniva che l’India avrebbe subito perdite maggiori del conflitto di cinquant’anni prima se avesse intrapreso un’escalation militare; il presidente Xi Jinping sosteneva che l’esercito popolare avesse la forza di difendere la sicurezza e la sovranità nazionale contro ogni esercito d’invasione5. Dopo due mesi di confronto, i due paesi hanno raggiunto un accordo per il reciproco disingaggio alla vigilia del vertice dei Bric, tenutosi a Pechino il 5 settembre, durante il quale si è svolto anche un incontro tra il Primo ministro indiano Narendra Modi e il presidente cinese Xi Jinping. Entrambi i leader hanno riconosciuto la necessità di costruire nuovi meccanismi per generare fiducia ai confini, ma le questioni rimangono ancora aperte e irrisolte.

Le risorse idriche

Le relazioni sino-indiane ai confini sono caratterizzate non solo da dispute territoriali ma anche dalla gestione delle acque, in particolare del fiume Brahmaputra (2628 km) che nasce nel Tibet, in territorio cinese, ma scorre per la gran parte in India e Bangladesh. La Cina ha il 20% della popolazione globale, ma solo il 7% delle riserve di acque dolci6 e per sopperire ai propri fabbisogni, sia idrici che energetici, ha avviato un massiccio programma di costruzione di dighe lungo il Brahmaputra, con un forte impatto sui paesi che ricevono le sue acque a Sud. Si stima in particolare che il bacino del Brahmaputra contribuisca al 44% del futuro potenziale idroelettrico dell’India. Non esiste un trattato per la divisione delle acque, ma si è cercato di creare un sistema di scambi di dati. Nel 2006 è stato creato un gruppo bilaterale con questo scopo e nel 2010 una conferenza a Dhaka di tecnici e scienziati dei paesi rivieraschi ha invitato alla condivisione di informazione e dati sull’utilizzo delle acque del Brahmaputra. Nonostante questi tentativi, un trattato sulla condivisione dei dati non è mai stato effettuato. Esiste però un accordo commerciale in base al quale la Cina può vendere annualmente i propri
dati sui prelievi idro-geologici ai paesi interessati ogni anno durante la stagione dei monsoni. Tale pratica, però, si è interrotta dopo le dispute di confine a Doklam nel 2017.

Competizione e collaborazione economica

Di fatto, da oltre mezzo secolo c’è una lunga tregua ai confini dei due paesi, che si è incrinata negli ultimi anni con una nuova forte rivendicazione da parte della Cina dello Stato dell’Arunachal Pradesh come parte integrante del Tibet. Le relazioni bilaterali sono inoltre complicate dalla tradizionale alleanza della Cina con il Pakistan, e dalla forte cooperazione economica tra i due paesi. Se la guerra del 1962 era stata caratterizzata anche da una certa preoccupazione cinese che l’India – all’epoca uno dei principali recipienti di aiuti allo sviluppo da parte degli Stati Uniti e dell’Occidente – volgesse verso una politica filo-imperialista, le posizioni si sono poi rivoltate negli anni seguenti, con una politica ostile all’India da parte di Nixon nella guerra tra India e Pakistan per la liberazione del Bangladesh e il supporto cinese al Pakistan. Mentre l’India stringeva rapporti sempre più stretti con l’Unione Sovietica nel corso degli anni Settanta, la Cina creava legami sempre più stretti in funzione anti-sovietica con il Pakistan, che si alleava fortemente più agli Stati Uniti. L’asse sino-pakistano ha retto anche alla fine della Guerra Fredda, alle tensioni per il terrorismo islamico che hanno raffreddato i rapporti tra USA e Pakistan e all’intensificarsi della cooperazione tra India e Stati Uniti. Di fatto, i confini terrestri indiani sono caratterizzati da frontiere in cui tre Stati, tutte potenze nucleari, affrontano una partita con complessi interessi sia regionali che globali, dove i primi hanno in qualche modo la priorità ma sono temperati dalle esigenze delle grandi questioni continentali e mondiali.

Con lo sviluppo economico dei due paesi la competizione indiana e cinese si è accentuata anche per altri motivi, compensata però dalla necessità di collaborazione e da un rafforzamento dei rapporti

commerciali, che nel 2017 hanno raggiunto un picco di 84.44 miliardi di dollari, con una crescita annuale del 18,63% nonostante le tensioni bilaterali alla frontiera col Bhutan7. All’inizio del secolo, nel 2001, l’interscambio commerciale era di appena 3,6 miliardi. L’immagine di una tregua che può sfociare sia in competizione che in collaborazione offre sicuramente la complessità delle relazioni indiane e cinesi.

Infrastruttura, sicurezza e geopolitica

I commerci e gli investimenti bilaterali crescono ma sono anch’essi un motivo di forte competizione. In particolare gli investimenti cinesi per infrastrutture soprattutto stradali e portuali, nell’Asia meridionale, in paesi come Bangladesh, Sri Lanka, Birmania, Pakistan e ultimamente anche Nepal e Maldive rappresentano un motivo di forte preoccupazione per l’India, che vede in questa presenza nel vicino territorio regionale una possibile minaccia alla propria sicurezza, soprattutto per quanto concerne la politica cinese del “filo di perle” caratterizzata dalla costruzione di porti lungo le comunicazioni marittime nell’Oceano Indiano in posizioni strategicamente sensibili. Nel 2007 l’India, dal canto suo, ha adottato una dottrina marittima che riconosce l’importanza delle strategia navali per la sicurezza del paese, fino a qualche tempo fa subordinate a quelle terrestri e aeree. Di fatto il paese afferma con questa dottrina i suoi interessi navali nell’Oceano Indiano come vitali per la propria sicurezza e apre a un interventismo anche nell’Oceano Pacifico, con una certa sintonia con USA e Giappone coi quali, a partire dal 2015, tiene annualmente esercizi navali trilaterali. L’India è diplomaticamente attiva anche in tutte le controversie sul Mar Cinese Meridionale, sostenendo paesi come le Filippine e il Vietnam che hanno rivendicazioni in contrasto a quelle del governo di Pechino.

Per controbilanciare la crescente influenza cinese nei mari dei paesi della SAARC – l’associazione dei paesi dell’Asia Meridionale – di cui fanno parte anche Pakistan, Bangladesh e Sri Lanka, l’India ha promosso anche una nuova associazione regionale il BIMSTEC (Bengal Initiative for Multi-Sectoral Technical and Economic Cooperation – Iniziativa per la cooperazione multi-settoriale tecnica ed economica nel golfo del Bengala) che include paesi come Myanmar e Tailandia, che possono avere nella regione interessi affini a quelli dell’India rispetto a un’eccessiva presenza cinese nei mari della regione.

Lo sviluppo da parte della Cina di infrastrutture su scala intercontinentale crea preoccupazione per l’India anche sul fronte terrestre, in particolare con il programma della via della Seta del XXI secolo (noto anche come OBOR, One Belt, One Road) che tende a collegare l’Asia del Pacifico con l’Europa centrale. Uno di questi progetti, il “corridoio economico sino-pakistano” è previsto nel territorio del Kashmir sotto il controllo del Pakistan e l’India ritiene questo intervento una violazione della sua sovranità nazionale. Unitamente a questo, vi è anche il timore
di una sorta di accerchiamento tra grandi reti di infrastrutture stradali e ferroviarie a Nord e una rete
di porti controllati sempre dalla Cina sia a Sud-est che a Sud-ovest. L’India si è tenuta in disparte da questi programmi e ha obiettato ad essi nei forum internazionali.

Il corridoio economico pakistano-cinese termina a Gwadhar, sulle coste dello Stato pakistano del Balucistan, dove la Cina ha investito nella costruzione di un grande porto strategico.

L’India ha invece raggiunto un accordo nel 2016 col governo iraniano per un grande investimento portuale a Chabahar, sul golfo dell’Oman, destinato a

creare un corridoio per l’interscambio con l’Afghanistan e, in prospettiva, anche con altri paesi dell’Asia centrale, come Turkmenistan, Uzbekistan, Kyrgyzstan, Tajikistan, coi quali l’India non ha confini diretti.

Il club del nucleare

Gli accordi nucleari internazionali sono un ulteriore terreno di confronto. La Cina è un paese membro del gruppo dei fornitori nucleari (NSG, National Suppliers Group), un organismo di paesi fornitori di materiali nucleari che ha lo scopo di controllare l’applicazione dei trattati di non proliferazione. Sia l’India che il Pakistan, che hanno condotto test nucleari nel 1998, non fanno parte di questo gruppo. L’India, tuttavia, ha continuato a eseguire un proprio programma di sviluppo nucleare civile e commerciale anche grazie al supporto degli Stati Uniti, coi quali ha raggiunto un accordo di cooperazione commerciale nel nucleare civile nel 2005, ratificato dal senato 2008. L’accordo che consente la cooperazione tra i due paesi riconosce
il presupposto che l’India ha di fatto una politica responsabile verso la non proliferazione nucleare anche se non ha firmato il trattato. Analoghi accordi sono poi stati fatti in seguito col governo francese. Nel 2010 il governo americano ha annunciato pubblicamente il proprio appoggio all’ingresso dell’India nello NSG. Negli anni seguenti diversi paesi membri si sono espressi in favore della richiesta indiana di ammissione tra cui, di recente, anche l’Italia. Le obiezioni cinesi, sulla base del fatto che l’India non ha firmato il trattato di non proliferazione nucleare, rappresentano, però, un ultimo ostacolo sul suo percorso di ammissione. Il governo di Pechino infatti, argomenta che l’ammissione dell’India senza la sottoscrizione del trattato violerebbe un principio di non discriminazione dal momento che il Pakistan ha anch’esso presentato un’analoga richiesta.

La posizione cinese è assai ferma e costantemente ribadita, nonostante le pressioni di altri paesi membri, tra cui di recente anche la Russia, e sta emergendo ormai come uno dei temi più sensibili nelle relazioni con l’India.

Conclusioni

Le relazioni tra i due giganti asiatici non sono fatte solo di competizione, ma ci sono molte aree di convergenze; in particolare la cooperazione è molto forte rispetto ai BRICS e alla banca asiatica per gli investimenti nelle infrastrutture (AIIB), creata di recente. Ci sono alcuni obiettivi economici globali che sono comuni a entrambi i paesi e ciò fa da ammortizzatore a molte tensioni. Il fatto che siano entrambi giganti demografici crea anche la necessità di buone relazioni come sbocco sui rispettivi mercati, che sono di enormi proporzioni. L’India, a livello regionale avverte un certo senso di accerchiamento da parte cinese con la crescente influenza che esercita nei paesi vicini, in particolare sul Pakistan. Dal canto suo, la Cina avverte la possibilità di essere accerchiata a sua volta da un possibile asse nippo-americano cui l’India potrebbe congiungersi. A Pechino c’è una percezione dell’India sia locale, per via del Tibet e delle altre dispute territoriali, sia globale; c’è una certa attenzione a contenere ogni azione locale entro limiti che evitino un radicale posizionamento indiano con altri Stati in forte competizione con la Cina. L’India è percepita come una sorta di swing state e per questo, pur tra i tanti elementi di confronto, Pechino avverte la necessità di una politica estera che non porti l’India su posizioni stabilmente anticinesi. È una partita complessa, in cui giocano esplosivi elementi di tensioni locali con elementi di moderazione determinati soprattutto da motivi economici e geopolitici globali. Finora questi ultimi hanno prevalso e hanno funzionato come agenti mitiganti e di tregua rispetto a tensioni regionali in cui operano tre potenze nucleari.

 

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