L’America di Trump /2
Da oltre un mese infuoca il dibattito sulla fine del ruolo globale del dollaro, sugli investitori che abbandonano Wall Street e l’America beccera e tronfia complicata di questo esodo che sublima le pulsioni autarchiche. La questione però è molto più drammatica.
Il valore di una moneta fiduciaria, soprattutto se ha un ruolo di riserva internazionale, dipende in ampia parte dalla fiducia nel sistema economico che rappresenta. Tale fiducia si fonda sull’insieme di regole, sullo loro efficacia e sui meccanismi di enforcement, in altri termini sulla linfa della fiducia viene alimentata dall’affidabilità dell’establishment, dalla stabilità delle politiche finanziarie pubbliche, dal funzionamento dei mercati finanziari, dalla potenza militare, dalle capacità tecnologiche, di sviluppo e di innovazione.
Il ritorno di The Donald alla Casa Bianca ha demolito queste certezze. L’incalzante sequenza di mattane, errori, minacce, aggressioni verbali, ordini esecutivi di dubbia legalità, passi falsi e proclami roboanti, seguiti da retromarce e sospensioni pagliaccesche ha deteriorato quasi tutti i fondamenti della fiducia e di conseguenza ha inficiato il ruolo internazionale del dollaro.
Fino all’avvento di Trump, nessuno metteva seriamente in discussione la primazia del dollaro per il prevedibile futuro.
Oggi gli investitori internazionali si chiedono se sia razionale continuare a dare credito ad un Paese con i conti pubblici squilibrati, senza uno straccio di piano di rientro, con un debito/Pil, con un debito estero che viaggia verso i 20 trilioni di dollari, e con un Presidente che non raddoppia. Peraltro, la Fed considerata l’oasi di razionalità in un deserto d’isteria, è stata colpita da un fuoco incrociato da parte di Trump.
E le sue nomine non bastassero già deprime gli stregoni della MMT, proponendo di stampare dollari per pagare i salari degli stranieri di Treasuries.
Addirittura, il Segretario al Tesoro Bessent si è esibito in uno spettacolare numero di excusatio non petita quando ha negato la possibilità che il dollaro venga usato come arma politica.
In sostanza si assiste con sgomento a un vertiginoso processo di auto-delegittimazione che parte dalla Casa Bianca, che mina la credibilità degli Stati Uniti e degli alleati storici dell’Occidente allargato e che destabilizza il mondo intero.
La fiducia degli investitori è precipitata da quando è diventato chiaro che il Presidente americano ha imboccato una strada di isolazionismo, sovranismo e confusione istituzionale senza precedenti.
La Costituzione dei Padri Fondatori era pensata per evitare l’emergere di un autocrate, ma si fondava anche sul normale funzionamento dell’ordine costituzionale e doveva essere puntualmente rispettata.
Le competenze dei vari organi sono chiaramente definite, e non possono essere stabilite dal capriccio del Presidente sulla base di inesistenti emergenze o minacce alla sicurezza nazionale.
Stracciare accordi commerciali da un giorno all’altro, anzi addirittura agire come se non fossero mai esistiti, farà deflagrare conseguenze imprevedibili innanzitutto per l’America, che del libero scambio impostandone i meccanismi, ne ha beneficiato immensamente.
Questa degenerazione non è compatibile con un’economia di mercato né con le dinamiche della crescita economica.
Il disorientamento imprenditoriale di pianificare, perché il governo potrebbe arrogarsi la facoltà, adducendo un’emergenza, di espropriare o distruggere aziende e patrimoni. Ipotesi assurda? Ma cosa vieta Trump un giorno di minacciare l’azienda Musk di stracciare i contratti di SpaceX con la Nasa? O quando taglia i fondi di ricerca alle Università (che sono istituzioni private) o attacca i social media?
La perdita del ruolo internazionale del dollaro ha solo un precedente: gli anni ’70, ma allora non si stagliasse un’alternativa credibile. Ma il dramma è proprio la mancanza di tale alternativa.
L’oro può essere un rifugio, le criptovalute fluttuano, lo yuan è uno strumento di propaganda, e il franco svizzero è troppo piccolo per essere un’alternativa.
Rimarrebbe l’euro. Infatti, autorevoli voci, da Blanchard alla Lagarde, lanciano segnali incoraggianti sull’occasione magica per le sorti della moneta unica.
Ma l’Europa non si farà trovare pronta. Regole contabili ingessanti, leggi nazionali farraginose e una cultura politica debole rispetto alla potenza militare insistente, rendono non credibile un’alternativa europea alla leadership americana.
Perciò l’uscita dal sistema imperniato sul dollaro sarà caotica e dolorosa. Ma inevitabile, a meno di un improbabile rigurgito di razionalità internazionale, dopo il dollaro regnerà il disordine.
Il nuovo articolo scritto a 4 mani con Fabio Scacciavillani e pubblicato su Il Sole 24 Ore