Corrispondenza dall’Asia: l’industria italiana di fronte al riassetto della supply chain globale

Ciao President, come stai? Spero tu abbia trascorso un bel thanksgiving day. Io ora sono a Shenzhen dopo essere stato una settimana in Vietnam ad Ho Chi Minh City. Poi prima di Natale rientrerò in Italia. Mi hai chiesto di aggiornarti sulla situazione di questa parte di mondo e allora ti racconto le mie sensazioni per quello che vedo e per quello che constato direttamente. Il primo gennaio 2019, se i dazi saranno confermati, rischia potenzialmente di essere l’innesto di una nuova crisi simile al 2008. I rischi ci sono e sono generalizzati. Il made in China potrebbe essere in gran parte messo fuori gioco, con un rischio deflattivo sul mercato interno cinese (i makers pur di vendere abbasseranno i prezzi ledendo i loro già bassi margini) e un rischio inflattivo su quello americano dove comunque ci sarà l’impatto dei dazi e non sarà possibile compensarlo con una riduzione paritetica dei prezzi d’acquisto (pensare di sostituire tout court il made in China negli stores USA è una chimera, almeno nell’immediato). Quindi i consumatori americani vedranno realizzarsi e subiranno un rialzo generalizzato dei prezzi. Tutto ciò conferma quello che io già scrivevo nel 2008 e a seguire (basta rileggere i miei articoli pubblicati anche sul tuo blog), ovvero che il concetto della supply chain globale (investire in Cina, produrre in Cina, vendere sui mercati mondiali a partire dagli USA) così come conosciuto alle origini non aveva già più senso dieci anni fa, a maggior ragione ora. I dazi di Trump saranno la pietra tombale di questo modello. Dopo che a inizio millennio, con l’ingresso della Cina nel WTO, i grandi capitali statunitensi ed europei si sono lì diretti contribuendo ad affermare il fenomeno Cina come fabbrica del mondo di cui tanto si è detto e scritto, ora essi stanno già virando verso il Sud Est Asiatico, a partire dal Vietnam, spinti dalla prospettiva dei dazi in ingresso in USA sul made in China. Quindi essi sperano che una localizzazione diversa lasci il mondo così com’è. Tuttavia c’è una novità rilevante rispetto ad allora. I primi a farlo (e giocano relativamente in casa) sono i grandi gruppi cinesi, ciò confermando che ormai la Cina non può essere più nominata la LCC per eccellenza, ma bensì un Paese che evolve sempre più la sua industria interna verso le manifatture altamente tecnologiche e di avanguardia e sempre meno in quelle ad alto contenuto di manodopera che invece vengono delocalizzate in altre aree fuori dalla Cina. Quest’ultima tipologia di produzioni ha senso infatti avviarle in Vietnam, Cambogia, in parte in Indonesia e Thailandia (non in Laos che non ha porti e quindi non può essere una base produttiva e logistica congrua). Come recita il vecchio agio, chi prima arriva meglio alloggia, anche perché questi Paesi nel loro complesso non potranno compensare le produzioni cinesi. Il loro sviluppo infrastrutturale è sostanzialmente all’inizio e per dimensione e capillarità non può essere lontanamente paragonato a quello cinese. Quindi che succede? Credo che sarà per tutti (USA e Cina) un gioco a somma minus, a perdere, perché tutti perderanno. E allora di fronte ad una necessità di reagire, si scoprirà chi sta bluffando e chi invece ha capacità e risorse per rimodulare il proprio assesto complessivo sullo scenario competitivo globale. Di certo la Cina, per motivi politici e sociali facilmente intuibili, non può fermare la sua crescita e quindi a fronte del blocco delle sue merci in export verso gli USA, punterà da un lato ad una spinta nel concentrare la sua industria nei settori a più alto valore aggiunto, dismettendo quelle obsolete, incrementando i vincoli ambientali per una industria più green e safe, compenserà il prevedibile calo del Pil dovuto ad una minore produzione interna (almeno nell’immediato) con un nuovo piano nazionale di grandi opere, così come fece nel 2008 e 2009. Dall’altro espanderà la sua influenza economica nelle regioni dove essa già opera a partire dal Sud est asiatico, poi l’Asia centrale verso l’Europa, infine l’Africa. Se da una parte si costruisce un muro (doganale), il corso del fiume (delle merci) non sparirà di per sé, ma troverà un nuovo sbocco. Gli USA vorranno di contro finalmente, al motto di America first, promuovere un ritorno all’industria nazionale, in realtà già iniziato con le politiche incentivanti di Obama. Il percorso sarà però lungo e non libero da insidie. Ora di certo partono da una posizione più debole perché recuperare il terreno perso non è facile, neanche per chi essere primi al mondo in assoluto non è più una certezza. Si confermerà comunque un modello di supply chain, si globale, ma geolocalizzato, quello che a suo tempo chiamai, io fra gli altri, glocal. È la nuova sfida. Portare la produzione prossima ai mercati di consumo, accorciandone il corso e quindi essendo più veloci e più reattivi di fronte ai cambi della domanda finale. Chi prima lo fa, prima e più facilmente vince il gioco competitivo, ovviamente senza tralasciare le ottimizzazioni comunque possibili a livello globale. In questo, la nostra industria manifatturiera (li dove ancora esiste) può giocare la sua parte. Di certo un governo nazionale pronto a  far sistema e a sostenerla nella sua sfida competitiva, capace di finalizzare quindi le risorse pubbliche (scarse) verso una crescita difficile ma concreta, sarebbe un plus quantomeno augurabile. Questa infatti dovrebbe essere la sfida nazionale: istruzione + investimenti per l’incremento della produttività. Altro che pensioni a quota 100 e reddito di cittadinanza, seppur un problema di ridistribuzione della ricchezza è assolutamente necessario da affrontarsi in Italia così come a livello globale, ma non ha scapito delle chances di crescita. Aspirare ad una decrescita felice (in cuor loro la maggior parte dei sostenitori del governo gialloverde ne sarebbe entusiasta) è infatti una chimera senza senso. Con meno, non c’è dubbio alcuno, si sta tutti peggio, eccetto l’avvio di singole pratiche ascetiche. Ma questa è un’altra storia.

di Valentino Blasone

Share