Coronavirus, Forchielli: “Anche a Shanghai siamo bloccati. Rimarremo a casa fino al 9 febbraio”

“Prontoooo???” A Bangkok è tardi. Alberto Forchielli risponde tonico come se fossero le sette del mattino. Stufo della prima vita da funzionario alla Banca mondiale e alla Banca europea degli investimenti, se ne è inventato una seconda da investitore fra Cina, Thailandia e Stati Uniti. Oggi (ieri per chi legge, ndr) ha ricevuto una mail dalla sede di Shanghai del suo Mandarin Fund. “Le autorità cinesi hanno detto che dobbiamo rimanere a casa fino al nove febbraio. Una mail di poche righe, cortese e senza fronzoli. A partire dal dieci si capirà quanto è grave la situazione. Ho parlato con i miei colleghi poco fa. Le aziende sono ferme ovunque. Sono tutti tappati in casa. Se devono ordinare qualcosa, lo fanno con i rider. Al massimo escono per fare la spesa con le mascherine”.
Perché il nove febbraio?
“E’ il tempo di incubazione del coronavirus calcolato dal momento in cui è partito l’allarme a Wuan. Se per allora l’epidemia non si ferma, sono cavoli amari”.
Quanto le sembra grave la situazione?
“Non c’è panico. I cinesi sono disciplinati, sanno che occorre aspettare. Ma per quel che ne ho capito questo ceppo di virus è più grave della Sars, perché può essere asintomatica e più facilmente trasmissibile. Vai poi a sapere quanti sono i casi non diagnosticati. Molti dal medico non ci vanno”.
E le conseguenze sull’economia mondiale?
“In questi giorni la produzione industriale cinese è collassata, basta passeggiare in qualunque città per capirlo. Se l’emergenza dura dieci giorni, il recupero sarà rapido. Se dura di più sono cavoli amarissimi. In questo momento non riesco ad essere né ottimista, né catastrofista”.
Le autorità cinesi sono state trasparenti?
“Per una volta quelle di Pechino hanno fatto uno sforzo. Non avevano alternative. L’errore grave l’ha fatto il sindaco di Wuan, che ha esitato a lanciare l’allarme. Secondo me lo mandano in punizione in un campo di lavoro”.
Non c’è ormai un effetto indotto dalla paura? Non è già abbastanza per produrre conseguenze sui flussi di commercio internazionale?
“Rispetto al 2003, l’anno della Sars, il contributo della Cina alla crescita mondiale è almeno triplo. Basta questo per dire che il rischio è alto”.
Lei vive a Bangkok, il Paese con il più alto numero di casi conclamati dopo la Cina. Come mai?
“Perché come dicevo l’allarme da Wuan è partito tardi, quando la gente era già partita per le vacanze del capodanno cinese”.
Dunque i cinesi hanno portato il virus in Thailandia. E’ così?
“Ogni anno qui sbarcano almeno nove milioni di persone dalla Cina. Almeno un quarto viene in questo periodo”.
E dunque dobbiamo immaginare che molti cinesi contagiati dal virus sono partiti per altre mete?
“Questa è probabilmente la ragione per la quale si è propagato rapidamente fuori della Cina. Ormai i cinesi che possono permettersi di viaggiare sono molti”.
E come vanno le cose lì a Bangkok? La gente è informata?
“(Forchielli ride di gusto) Qui c’è il regime militare, al governo sono un po’ cialtroni. Non hanno voglia che se ne parli, dunque i giornali non ne parlano. Non vogliono apparire offensivi con i cinesi, ne hanno molto rispetto. E poi se lanciassero l’allarme si fermerebbero i flussi turistici. Mi auguro siano almeno convinti che la pandemia non ci sarà”.
Lei crede alle teorie complottiste?
“Ne circolano due. La prima, messa in giro dai cinesi, dice che il virus sarebbe stato creato dagli americani. La seconda sostiene che il virus sia uscito da un laboratorio militare di Wuan: in effetti lì ne esiste uno. La prima teoria mi pare una stupidaggine: che cosa avrebbero da guadagnarci gli americani? La seconda potrebbe avere un fondamento, il virus avrebbe potuto propagarsi per errore. Ma se così fosse non mi immagino che da un laboratorio esca la mutazione di un ceppo esistente: semmai avrebbe dovuto essere completamente nuovo”.
Perché nonostante gli standard igienici ormai migliori di certe nostre città in Cina scoppiano ancora epidemie?
“Abbiamo una visione stereotipata della Cina. Ce la immaginiamo ormai popolata solo da cittadini urbanizzati. Ci dimentichiamo che ci sono ancora almeno quattrocento milioni di persone che vivono nelle campagne, ciascuno con conigli e polli da vendere al mercato degli animali…”.

Articolo di Alessandro Barbera, pubblicato il 31.01.20 su La Stampa