La crisi politica francese non si spiega soltanto con le dinamiche partitiche o con la personalità di Emmanuel Macron. È il risultato di fattori strutturali, ignorati o sottovalutati per decenni, che oggi esplodono in forma di instabilità istituzionale. Non scomparirà di certo con le dimissioni di Bayrou e nemmeno se Macron venisse sostituito da Le Pen o da un altro esponente della destra francese alle prossime elezioni presidenziali.
Il dato di partenza è semplice: il debito pubblico francese ha superato il 110% del PIL (114,2% nel 2024 secondo Eurostat), con una spesa primaria che ormai assorbe stabilmente il 55% del PIL. Tra le principali voci di rigidità figurano la spesa pensionistica (circa il 14% del PIL, seconda solo all’Italia nella UE) e l’ampio comparto assistenziale e sanitario. In parallelo, la pressione fiscale ha raggiunto il 44% del PIL, seguìta da Italia, Danimarca e Belgio. Come in questi altri paesi non sembrano esistere margini per aumentarla ulteriormente senza effetti depressivi sulla base imponibile e sulla competitività del paese. In questo contesto, il “realismo tecnocratico” di Macron si è dovuto rassegnare a tentativi di introdurre correttivi minimi che però scatenano proteste violente da un lato e dall’altro, mentre il lento deterioramento delle condizioni economiche si traduce in crescente instabilità politica e finanziaria.
Tuttavia, questa spiegazione si scontra con un paradosso apparente: gli spread sui titoli francesi restano bassi, la spesa per interessi è sostenibile (circa 2,4% del PIL nel 2023) e gli investitori non scappano. Il debito resta, insomma, “sostenibile”, perché i tassi di interesse reali pagati dallo Stato francese sono negativi. Ma questo non impedisce che la dinamica complessiva diventi fonte di stagnazione e instabilità politica.
Come in Italia negli anni ’90 e 2010, le grandi rigidità della spesa pubblica rendono impossibile correggere il bilancio senza imporre sacrifici diffusi. Ogni ipotesi di riforma mobilita vaste proteste, che vengono strumentalizzate sia dalla sinistra – difesa integrale dello Stato sociale – sia dalla destra – difesa corporativa delle categorie protette. Se vi ricorda un altro paese che conoscete vuol dire che siete abbastanza fisionomisti.
L’analogia con l’Italia è infatti immediata. Nel 1992 la crisi valutaria e di bilancio mise fine alla Prima Repubblica: i mercati imposero una correzione drastica, la lira fu svalutata, si introdusse una patrimoniale (il famoso prelievo forzoso del 6 per mille) e si avviarono privatizzazioni. Nel 2011, sotto la pressione dello spread oltre i 500 punti base e un debito al 120% del PIL, il governo Berlusconi cadde lasciando spazio all’esperimento tecnocratico di Mario Monti. In entrambi i casi, la politica tradizionale fu incapace di gestire il vincolo esterno e rifugiò in soluzioni d’emergenza.
Ma quelle soluzioni, come dimostra la traiettoria successiva, non hanno risolto i problemi strutturali. I problemi strutturali si risolvono solo quando sono riconosciuti tali dalla maggioranza dell’elettorato e questo esprime una forza politica capace di affrontarli. Una tale forza in Italia non esisteva ai tempi di Macron di oggi e non esiste nemmeno ora: il continuo oscillare tra tentativi di riforma e restaurazioni assistenzialistiche è la nostra storia recente. Vale a maggior ragione per l’Italia in confronto alla Francia.
Il confronto tra i dati della finanza pubblica dei due paesi è eloquente: il debito francese è al 114% del PIL, la spesa pubblica al 55% (dati Eurostat 2023), la pressione fiscale al 48%. L’economia cresce poco sopra l’1%. Al 2023 il PIL pro capite italiano a parità di potere d’acquisto era di 27.700 euro, quello francese 34.700, quello tedesco 39.700.
La borghesia produttiva francese, soprattutto quella legata all’industria e all’export, non ha ancora metabolizzato l’idea del declino. Se percepisce stagnazione e fallimento della politica, si mobilita e spinge per soluzioni drastiche. D’altro canto, i gruppi sociali sussidiati in una forma o l’altra dall’intervento pubblico si oppongono a ogni cambiamento e lo scontro sociale causa l’instabilità politica a cui assistiamo ora.
In Italia, invece, il ceto produttivo si è rassegnato: esporta quando può, evade ed elude quando non può, si adatta a condizioni di arretratezza diffusa, preferendo la sopravvivenza alla sfida competitiva. Una larga parte del sistema economico si è abituata a vivere di rendita, in assenza di crescita e innovazione.
La crisi politica francese ci ricorda che, prima o poi, il nodo strutturale viene al pettine. Per la Francia il momento sembra avvicinarsi: la sfiducia crescente verso Macron, le piazze in ebollizione, l’implosione dei partiti tradizionali, il ritorno di Le Pen come minaccia reale.
Resta da vedere se anche in Francia, come già in Italia, la crisi troverà un provvisorio sbocco tecnocratico, o se evolverà in una vera e propria svolta politica.
Il nuovo articolo scritto insieme a Michele Boldrin, pubblicato su Il Sole 24 Ore