Sanzioni alla Russia, il copione stantio e l’irrilevanza della Ue

L’annuncio in pompa magna del diciannovesimo pacchetto di sanzioni dell’Unione Europea contro la Russia dovrebbe far scattare l’allarme rosso fuoco sul quadrante del ridicolo.

Perché è una implicita ammissione che i precedenti 18 siano stati un assortimento di vacuità parolaie. Non tanto perché le sanzioni non siano efficaci, come starnazzano le oche del Cremlino (che però stranamente ne intimano la cancellazione), ma perché l’efficacia dipende dal rigore con cui vengono applicate. Se si tollerano le triangolazioni sfacciate attraverso paesi tipo Armenia, Kazakhstan, Kyrgyzstan o Turchia, se si chiudono gli occhi di fronte alle relazioni pericolose degli armatori greci, se si continua ad essere gli utilizzatori finali degli idrocarburi raffinati o greggi di provenienza russa ci si espone al ludibrio planetario. E addirittura si fornisce a Trump l’occasione per una energica (per quanto pretestuosa) tirata di orecchie via Truth contro l’ipocrisia e la vergogna di chi con una mano emette grida sanzionatorie, mentre con l’altra spedisce o incassa bonifici dal regime putiniano. E per colmo di codardia ancora non espropria i 300 miliardi sequestrati dal 2022 alla banca centrale russa.

Questa ennesima comparsata sulle sanzioni fa parte di un copione stantio di appelli accorati, proteste indignate, proclami roboanti, propositi incrollabili e piani mirabolanti custoditi nei reliquari sull’Altare dell’Impotenza a Palazzo Berlaymont. Insieme al Rapporto (ormai vecchio di un anno) di Draghi e al suo discorso al Meeting di Rimini, ennesimo sfogo di rito autoflagellatorio di un’Europa sempre più prostrata e inebetita di fronte alla guerra ibrida del Cremlino e alle incursioni di droni sul territorio Nato.

Questo continuo sterile elenco dei problemi, queste patetiche esortazioni ai “volenterosi” (nome perfetto per una Ong, ridicolo per un’alleanza militare), queste lamentele sulle occasioni perdute ricordano i mesti umori che aleggiano tra le mense degli ospizi.

Nessuno ha il coraggio di fare i conti con la realtà evidenziando una verità spiacevole per le opinioni pubbliche frastornate: l’attuale assetto istituzionale dell’Unione Europea è una condanna all’irrilevanza, o peggio, alla sottomissione a uno dei blocchi che stanno emergendo in un mondo regredito alla politica di potenza e quindi alla legge del più forte. Illudersi anacronisticamente di esercitare influenza, di tutelare i propri interessi e di preservare il benessere grazie al nobile soft power o alle regole delle relazioni commerciali ci consegnerebbe alla raccolta differenziata della Storia.

Un’Unione di 27 stati incatenati all’unanimità non troverà mai la forza di andare oltre i vertici inconcludenti, i rinvii, i compromessi paralizzanti. Un museo delle cere non diventa caserma apponendo elmetti sulle statue. Le garanzie di sicurezza, senza soldati da mandare al fronte, armi per respingere agli attacchi russi e sistemi antimissile per proteggere le proprie città  sono impegni assurdamente fasulli.

È arrivato il momento di abbandonare questo concerto stonato (in balia di Orban e Fico) e creare una cooperazione rafforzata sulla Difesa ai sensi del Trattato di Lisbona. Consente ad un’avanguardia di almeno 9 stati membri di forgiare velocemente un’integrazione comune in materie dove la UE si rivela impotente, senza subire i ricatti e superare la paralisi decisionale preservando il quadro formale dei trattati, ma dichiarando esplicitamente che tale cooperazione rafforzata costituirebbe la punta di diamante di una nuova architettura decisionale per consentire all’Europa di sedersi al tavolo delle potenze economiche e militari del XXI secolo.

Peraltro, il Trattato ha introdotto una cooperazione militare rafforzata: la Permanent Structured Cooperation (Pesco), lanciata nel 2017 da 25 Stati membri (senza Danimarca e Malta). Per quanto preveda impegni vincolanti in termini di spesa, capacità militari, intelligence e interoperabilità dopo tre anni e mezzo dall’inizio dell’invasione dell’Europa da parte di Putin, pochi si sono accorti della sua esistenza.

Occorre dunque un’istituzione in grado di consolidare un esercito europeo che tuteli gli interessi dei paesi membri in tutto il globo. Sotto un comando unico, con un procurement centralizzato, un budget cospicuo per la ricerca avanzata e soprattutto un armamento nucleare comune che non ci lasci tremebondi alla mercé delle minacce di un Medvedev o di una Zacharova qualunque.

Il nuovo articolo scritto a quattro mani con Fabio Scacciavillani e pubblicato su Il Sole 24 Ore