Diario – Alfonso Giuliana classe 1917 Sergente Maggiore Divisione Ravenna

Marco Sorrenti mi ha invitato a pubblicare il diario di mio padre Sergente Maggiore che ha combattuto in Russia con la Divisione Ravenna.
Il diario scritto su un quadernetto cartonato che ho ritrovato in pessimo stato nella cantina dentro a una cassetta di legno insieme al tesserino militare, a una fodera da cappotto in pelle di pecora e a una croce di bronzo.
Il diario inizia il 10 dicembre del 1942 e termina il 6 ottobre 1943, molte pagine scritte a matita risultano illeggibili per l’umidità che le ha cancellate, per altre ho dovuto fare una certosina opera di ricostruzione, comunque quello che ne esce è la storia di una generazione che ha perduto la sua giovinezza per colpa della guerra……..Romano Giuliana
 
Parte I     Diario – Alfonso Giuliana classe 1917 Sergente Maggiore Divisione Ravenna
10 dicembre 1942 ore 6
Sto montando di pattuglia, davanti alle nostre difese sembra tutto tranquillo, troppo tranquillo, Lucifero è inquieto, guarda verso la linea nemica e fiuta l’aria come se sentisse qualcosa, insieme a due uomini decido di spingermi fino a quello che rimane di un grosso albero che sta a cinquanta metri davanti a noi, da quella posizione cercherò di vedere che fanno i russi, fa freddo, la neve è caduta anche la notte scorsa, Giovanni mi allunga la fiasca, “sergente, fatti un sorso che ti riscaldi”, bevo e neanche sento quel liquido che mi scende dentro al corpo, Giovanni sorride, “è roba buona, l’ho sfilata a un russo, tanto a lui non serviva più, gli avevano tolto le scarpe ma questa gliela avevano lasciata”, Lucifero mi spinge con il muso, poi apre la bocca senza abbaiare, il fiato gli fa una nuvola, usciamo piano dalla buca cercando di tenerci distanti, Lucifero strisciando ha preso il comando, avanza lentamente, poi si ferma, gira la testa, mi guarda, e sicuro che gli sono ancora dietro riparte, Giovanni alla mia destra si è fermato e mi fa un cenno con la mano e indica avanti verso la sua destra, quello che sembra un sasso, e tutto ciò che rimane di un russo saltato su una mina, un soldato come noi, venuto avanti per spiarci e che non ce l’ha fatta a tornare, ormai quando scoppia una mina non ci facciamo più caso, sarà che i russi preferiscono avanzare con il buio per ritrovarsi in posizione alle prime luci dell’alba e di notte la loro artiglieria ci spara addosso, di danni ne fa pochi ma non ci lascia dormire, Giuseppe, l’altro fante alla mia sinistra , non si è accorto di niente e cerca di arrivare in fretta a quell’albero bruciacchiato e senza foglie che se ne sta come una sentinella su quella piccola collina, quando tutti e quattro arriviamo, ci mettiamo a guardare verso l’orizzonte, ma tutto sembra immobile eppure il cane è inquieto.
11 dicembre 1942 ore 6
Da ieri sera i russi non fanno altro che spararci addosso, ma non è il solito fuoco di artiglieria, adesso da un’ora hanno iniziato anche a suonare gli organetti, quei razzi che piovono creano il panico, con il tenente Grottanelli cerchiamo di alzare il morale della truppa: “Tutto fumo e niente arrosto”, ripete il tenente, Lucifero sembra dargli ragione e se ne sta buono, buono e mi guarda come volesse dirmi che i russi stanno scherzando, ma quelli non scherzano, il capitano ha chiesto un fuoco di sbarramento verso la collinetta davanti a noi, bisogna impedire a tutti i costi che i russi si trincerino su quella posizione, è ripreso a nevicare, il fuoco russo cessa all’improvviso. Lucifero si alza, ringhia e abbaia , in quel momento le sagome bianche del nemico iniziano a muoversi sulla collina, ora sono intorno all’albero, ci prepariamo al contrattacco, la nostra artiglieria ancora non spara. “Tenente perché i nostri non aprono il fuoco?” “ E chi lo sa, prepariamoci a fare tutto da soli, sergente, dia l’ordine di uscire al mio segnale”, intanto un porta ordini corre dal capitano che scrutando l’orizzonte con il binocolo, sta cercando di capire se si tratta della solita piccola azione di disturbo o di qualcosa di più grande, il capitano legge il dispaccio in silenzio, “tenente è cominciata, lungo tutto il fronte vengono segnalate azioni di attacco, che Dio ci assista”. Finalmente, iniziamo a sentire qualche colpo dei nostri che vola verso le linee russe, pochi secondi, poi niente, usciamo allora allo scoperto per riprenderci la collina.
11 dicembre 1942 sera
E’ stato terribile, i russi non volevano mollare, dieci di noi sono morti, altri sei sono feriti, siamo esausti ma alla fine ci è riuscito di farli sloggiare, il tenente è ferito a un braccio, niente di grave per fortuna, anche se l’ufficiale medico ha detto che per lui e gli altri cinque la Russia è finita.
Il cappellano benedice quei dieci poveretti allineati sulla neve, corpi di soldati irrigiditi dal freddo, eppure ancora in fila, ordinati come in parata, il capitano ci ha detto che non c’è tempo ne mezzi per riportarli indietro, verranno sepolti su quella stessa collina dove sono caduti, all’ombra di quell’albero senza foglie, dieci fosse e dieci croci, nessuno potrà piangerli, noi non potremo piangerli, le poche lacrime che ancora rigano i nostri volti si fanno subito ghiaccio, intanto il nemico ha ripreso a colpire con l’artiglieria, non è ancora finita.
 
12 dicembre 1942 ore 10
Dalla postazione avanzata sulla collina riesco a vedere un grande movimento di uomini e mezzi, per tutta la notte il cielo si è illuminato di lampi e ci è tornato l’eco dell’artiglieria russa che martella senza sosta il fronte, è strano ma qui da noi tutto tace, il capitano è convinto che l’attacco si è fermato perché in questo tratto non sono ancora arrivati i carri armati, lo scontro di ieri serviva solo a valutare la nostra capacità di reazione, un autocarro ci ha portato insieme alle munizioni la posta e alcuni fiaschi di grappa, approfitto di questa calma per leggere la lettera che ha scritto mia sorella : ^ Caro fratello, spero che queste poche righe ti raggiungano presto, il babbo voleva scriverti, ma non ce la fatta, ha detto che preferisce crederti lontano per lavoro, e aspetta che da un momento all’altro tu bussi alla porta, chissà, magari per Natale, ho visto un cinegiornale che ci ha sollevato c’erano soldati dai volti allegri che giocavano con la neve, anche alla radio hanno detto che è solo questione di giorni, poi la guerra finirà e già a Natale in molti inizieranno a tornare a casa , riguardati e anche se non torni per le feste, l’importante e che tu stia bene, ti abbracciamo tutti. Tua sorella Marianna ^. Splende di nuovo il sole, la luce che si riflette sulla neve abbaglia la vista, ho pensato ai miei compagni caduti, fino a ieri scherzavamo, raccontandoci, il giorno quando saremmo tornati e delle ragazze che ci avrebbero fatto festa. Il sergente Sais è venuto a darmi il cambio, beato lui è sempre allegro, dice a tutti che sta meglio qui che al suo paese e quando tutto sarà finito vuole trovarsi moglie da queste parti, così sarà il primo sardo russo.
12 dicembre 1942 ore 18
Si susseguono notizie di violenti scontri, in diversi punti i russi sono penetrati nel nostro schieramento, i tedeschi si preparano a portare le riserve sulla linea del fronte, da circa un ora abbiamo iniziato a sentire l’inconfondibile rumore dei carri armati che il nemico sta preparando in formazione, è tornata la neve questa volta accompagnata da un vento gelido che ci taglia la faccia, devo stare molto attento a non scoprire nessuna parte del corpo, fortuna che ai piedi ho un paio di stivali che mi sono procurato l’ultima volta che sono andato in paese, i russi sono brave persone e più di una volta mi sono chiesto che siamo venuti a fare a casa loro, ho anche conosciuto una ragazza, si chiana Inna ha i capelli colore del grano e gli occhi verdi, mi piace perché mi sta ad ascoltare, non credo che capisca tutto quello che dico, ma da come mi guarda, devo piacergli molto, la madre mi ha fatto capire che noi italiani non siamo come i tedeschi , io gli ho detto che sono contento di non essere come loro. Bevo un sorso di grappa, controllo la pistola, con questo freddo non vorrei che al momento buono mi pianti in asso, vediamo, ho riposto nello zaino tutto quello che mi potrebbe servire se dovessimo ripiegare. Contro quelle bestie di carri non c’è molto da fare, anche le granate rimbalzano sulle lamiere se non ci appoggiano i tedeschi possiamo pure farci il segno della croce. Due squadre sono di ritorno, hanno rinforzato i campi minati davanti a noi , a un caporale di Milano ho provato a chiedere come và, mi ha guardato, poi ha scosso la testa “ l’è minga arivaa , ma ariva” .
13 dicembre 1942 ore 17
Si combatte, siamo come le onde del mare che avanzano e retrocedono, ogni volta sempre più piccole, ogni volta sempre più stanche, non riusciamo neanche a contare i morti, una scheggia di granata mi ha colpito, è penetrata nel cappotto e si è fermata sul mio braccio sinistro, Caporossi mi ha medicato alla meglio, l’ufficiale medico ride: “ Non sei fortunato, puoi tornare a combattere, ma cerca di non farti ammazzare che siamo rimasti in pochi”, è strano come si possa ridere anche della morte. Nonostante tutto, grazie questa volta, a tre carri tedeschi, riusciamo a resistere, anche se, il capitano ripete che le cose per l’armata rumena si stanno mettendo male, e se cedono i rumeni, salta tutto il fronte. Riprendo a fatica il mio posto dietro a un riparo inesistente, i due uomini addetti alla mitraglia imprecano contro il freddo, iniziano a scarseggiare le munizioni, ho fame, tiro fuori dalla tasca del cappotto una galletta, il mitragliere mi guarda, “ne vuoi un pezzo ?” Gli dico, scuote la testa mentre, il servente al pezzo fa e dice si, divido la galletta e la sola cosa che mi rimane, inizio a pensare che se non lo faranno i russi, lo farà la fame, guardo alle mie spalle la distesa infinita di neve che ci riporta a casa, la grande confusione, padrona delle retrovie, le grida dei feriti, che ne sarà di loro se saremo costretti a ripiegare? Ormai il giorno cede il passo alla notte, il fuoco delle armi si attenua fino a ridursi a qualche colpo sporadico che insegue le ombre nella notte. Che freddo, solo ora lo sento, insieme agli ultimi lamenti di chi rende l’anima a Dio, cerco di dare una mano, il fante Primo Rossi mi muore tra le braccia, l’ultimo suo pensiero è rivolto alla mamma, ha poco più di vent’anni tanti per combattere, pochi per morire, arriva il rancio, una brodaglia alla buona e un pezzo di pane nero, mangio e penso questo è il mio ultimo pasto.
 
17 dicembre 1942 alba
Un fiume in piena che ci travolge, nonostante gli sforzi di tenere il fronte siamo costretti ad arretrare, inutili i tentativi di contrattaccare con le poche riserve disponibili, ci illudiamo che da un momento all’altro i tedeschi arrivino numerosi a darci una mano, il capitano non parla ma dal suo viso capisco che siamo alla fine, sono due giorni e due notti che non chiudo occhio e non mangio, i russi diffondono con gli altoparlanti inviti alla resa, ma noi nonostante tutto continuiamo a combattere con la forza che solo la disperazione sa dare agli uomini, i morti sono più dei vivi, ma noi continuiamo.
17 dicembre 1942 tramonto
Da qualche ora è iniziata la ritirata, in pieno ordine ripieghiamo, anche se non sappiamo ancora fino a dove e fino a quando, i russi ormai ci stanno addosso con tutto quello che possono, gli aerei volano a bassa quota e colpiscono ogni cosa che si muove, alcuni uomini iniziano a cadere per il freddo e per lo sfinimento, chi ancora come me ce la fa cerca di aiutarli , i pochi automezzi disponibili sono stati usati per trasportare i feriti, ma ormai chi ce la fa, ce la fa o muore. Cammino e prego, prego, per me e per i miei compagni, anche se mi sembra che Dio non ascolti, il cappellano che mi sta affianco se ne accorto e cerca di confortarmi, “ ricordati, quando ti sembra che Dio ti ha abbandonato è allora che ti è più vicino, portalo nel cuore e fatti guidare
20 dicembre 1942 le case
Camminiamo ancora, come un lungo serpente che striscia nella neve, ogni giorno che passa è un giorno in più regalato alla vita, tanti di noi si addormentano nel dolce sonno della morte che arriva come una liberazione, gli arti dolenti, le facce dalle barbe ispide tagliate dal freddo e la pazzia dell’inverno russo che ottenebra le menti, devo vivere, voglio vivere, ripeto a me stesso, sempre con meno convinzione, sempre più certo che non arriverò a domani, un piccolo gruppo di misere case mi viene incontro, le porte sbarrate, un grande silenzio, il fumo che esce dai comignoli, una porta si apre, si affaccia un vecchio, fa un cenno con la mano, mi avvicino, penso, se devo morire voglio almeno farlo al caldo, altri dieci compagni mi seguono, il vecchio, non sembra ostile, dai movimenti delle mani credo voglia farci capire che vuole darci aiuto, riesco a guardare oltre la soglia di quella misera casa che mi appare come un castello, il vecchio ci fa entrare, il tepore del camino mi entra nella pelle, “italianski, italianski, no, german”, ripete il vecchio e sembra contento, prende alcune patate da una cassa e da un sacchetto dell’orzo, rovescia tutto in un pentolone, pieno d’acqua che fuma, poggiato sulla brace del camino, noi lo guardiamo immobili, il vecchio ci fa segno di sedere, ci accomodiamo alla meglio, penso, basta poco per non sentire la guerra, è come se l’avessimo scordata , intanto fuori, il vociare dei soldati che entrano nel villaggio e le porte che si aprono una ad una.
21 dicembre 1942 mattina
Riprendiamo il cammino, ormai siamo indistinguibili, uomini della Ravenna, della Torino della Pasubio, tedeschi della 298ma, marciamo e combattiamo, ogni tanto la testa della fila si ferma, si compatta e combatte, poi di nuovo in fila, chi arriva dopo trova solo i morti, una lunga e sottile interminabile strada lastricata di cadaveri, per quanto i russi facciano su queste immense distese di neve è impossibile ogni controllo e hanno scelto la tattica del logoramento, attaccano all’improvviso e all’improvviso si dileguano, quando non lo fanno i soldati, lo fanno i civili organizzati in squadre, uomini e donne bene armati ed equipaggiati sbucano dal nulla come branchi di lupi che azzannano il gregge, il mio amico Giuseppe mi cade vicino, è ferito, volevo lasciarlo al villaggio, gli ho detto :”in queste condizioni non puoi andare avanti, meglio prigioniero che morto”. Giuseppe ha girato la testa,”io cammino fino a quando Dio mi darà la forza”. Adesso la forza sta venendo meno, provo a fermare un automezzo tedesco che arranca nella neve, gli uomini sopra il cassone mi respingono con disprezzo, grido:”non è per me, non è per me “ e intanto guardo Giuseppe a terra, mi avvicino, “vai , non c’è speranza rimarrò qui , non vedi che siamo tanti”, cerco di rialzarlo, altri due mi aiutano a rimetterlo in piedi e sorreggendolo a turno lo facciamo camminare, mi guardo intorno, tanti poveretti accasciati nella neve aspettano il loro destino, vorrei provare a salvarli tutti, ma non posso.
 
 
 
La seconda parte Venerdi 22 Dicembre
 

Share

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *