USA contro Cina. Il dubbio amletico dello sceriffo americano.

Questa, in Italia, può sembrare una tematica degna di un film di fantascienza per quanto siamo fuori dalle reali dinamiche geopolitiche internazionali, soprattutto asiatiche, ma negli USA – almeno nelle ristrette cerchie che si occupano di simili questioni – il dibattito su possibili conflitti militari con la Cina è all’ordine del giorno, come testimonia la discussione, avvenuta alla Elliott School of International Affairs, presso la George Washington University, nel maggio del 2017, e intitolata emblematicamente “Avoiding War with China”.
In questo senso vale la pena seguire i ragionamenti – e relativi dubbi – di una autorità in materia, il diplomatico americano di lungo corso Chas W. Freeman Jr., nonché “Senior Fellow” al Watson Institute for International and Public Affairs della Brown University di Providence nello Stato del Rhode Island.
La premessa da fare, anche se è piuttosto ovvia, è che entrambi i Paesi in questione – USA e Cina – non hanno nessuna intenzione di scatenare una guerra tra loro, vi sono però contingenze, come la contesa delle Isole Spratly o Senkaku e l’indipendenza di Taiwan, che potrebbero innescarla.
All’origine di tutto ciò vi è innanzitutto un disequilibrio lasciato dalla storia. Nel senso che le forze militari Usa “circondano” ancora le frontiere cinesi a causa della politica di “contenimento” figlia della Guerra Fredda, con l’aviazione che spesso invade lo spazio aereo e marittimo cinese. E dal 1945, con la vittoria sul Giappone, gli USA sono di fatto gli “sceriffi” del Pacifico occidentale. All’inverso le forze cinesi sono schierate per difendere i propri confini, anche “esterni” al territorio stesso, come quelli marittimi, per impedire che Giappone, Malesia, Filippine e Vietnam possano prevalere nella contesa delle isole menzionate, oltre alla questione Taiwan, sotto l’influenza degli Stati Uniti dal 1950.
Di conflitti tra USA e Cina, in realtà, ne abbiamo contati diversi anche dopo la Seconda guerra mondiale, come in Corea o in Indocina a livello di servizi segreti. Inoltre va detto che ultimamente il disarmo nucleare non è più all’ordine del giorno nemmeno negli USA, anche per colpa della Corea del Nord, figurarsi in Cina. E paradossalmente la comunicazione diretta, anche in chiave di sicurezza nucleare, tra Washington e Pechino – per una totale mancanza di fiducia reciproca – è inferiore addirittura a quella tra USA e URSS durante la Guerra Fredda. Tutto questo non rassicura.
Però, in parallelo, va ribadito che nessuna delle due vuole una guerra. Anche perché la Repubblica popolare cinese, in settant’anni di potere comunista, ci ha insegnato che preferisce di gran lunga soluzioni diplomatiche e paramilitari piuttosto che militari in senso stretto. Per esempio, in Corea, dove indirettamente ha combattuto gli USA dal 1950 al 1953, una volta ripristinato lo status quo ante bellum al nord, nel 1958, ha concluso la sua presenza militare in Corea. Nel 1962 ha guerreggiato con l’India per rispondere a provocazioni di confine, per poi restare sulle posizioni originali. Nel 1979, in Vietnam, ha accettato enormi perdite sul campo di battaglia, poi si è disimpegnata. E dagli anni Ottanta è concentrata a presiedere dispute nel Mar Cinese Meridionale facendo però attenzione a non provocare scontri militari con i vicini – il Giappone peraltro adotta la stessa cautela – e con la Marina USA. E anche nella riunificazione di Hong Kong e Macao non ha usato la forza (anche se avrebbe potuto), mentre l’India lo ha fatto a Goa. E ancora su molti confini – Afghanistan, Kazakistan, Kirghizistan, Nepal, Pakistan, Russia, Tagikistan, Vietnam, Bhutan, India e Myanmar – ha diverse problematiche che gestisce in maniera tutto sommato pacifica.
Questo per dire che la Cina – sempre più ricca e potente e con sempre maggiori opportunità di “vincere” senza combattere – dimostra un elevato grado di strategia geopolitica senza arrivare a conflitti armati e militarmente tende ad agire con prudenza e senza fretta, su obiettivi limitati, con mezzi essenziali e in un tempo circoscritto.
Allora, si chiede il diplomatico Chas W. Freeman Jr., qual è il problema? Lui ne individua due, uno a breve e uno a lungo termine. Il primo riguarda Taiwan, che gli USA si sono impegnati a difendere. L’isola attualmente ha un governo pro-indipendenza cinese, le mosse di Trump sono insondabili e la Cina, oggi più che mai, ha i mezzi, anche militari, per inglobarla nonostante l’eventuale opposizione americana. Mentre il secondo è legato al declino del potere americano in Asia (e non solo), da un lato riguardo alla Cina ma dall’altro lato anche verso alleati e amici sempre più autosufficienti.
Ecco quindi che Freeman Jr. conclude amleticamente. Noi americani non siamo onnipotenti né tantomeno invulnerabili e quando negli ultimi decenni siamo andati da qualche parte nel mondo a fare una guerra l’abbiamo poi pagata in qualche modo anche a casa nostra, ma siamo anche uomini d’onore. Nel caso della Cina e dei suoi vicini, come facciamo a bilanciare i nostri interessi con il nostro onore?
Una domanda che per adesso resta senza risposta.
 
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