Un diverso punto di vista (parte prima). La globalizzazione secondo lo sguardo di chi la sfrutta pienamente

Kishore Mahbubani è un mio caro amico di Singapore. Soprattutto è uno stimato professore di “public policy” alla prestigiosa Lee Kuan Yew School presso la National University of Singapore. Il giornalista dell’Huffington Post, Nathan Gardels, gli aveva chiesto una serie di quesiti riservati su globalizzazione, immigrazione, crescita cinese, presidenza Trump e Brexit, per una indagine che stava elaborando. Le risposte gli sono piaciute particolarmente e ha chiesto a Mahbubani di farle diventare un articolo pubblicato sulla sua testata. Dal momento che si trattava di una comunicazione privata, Kishore ha dato risposte sincere e poco diplomatiche, non propriamente nel consueto stile compassato che contraddistingue gli intellettuali asiatici.
“Ci ho pensato un po’ prima di dare la mia approvazione alla pubblicazione – mi ha scritto lui – perché normalmente non è saggio rendere pubblici i pensieri privati, tuttavia viviamo in tempi insoliti, quindi ho deciso di assumermi il rischio. Alberto, fammi sapere se sono stato uno sciocco”. Tutt’altro gli ho risposto. E anzi, le sue considerazioni meritano tutta la nostra attenzione.
Iniziamo da qui, spesso noi occidentali diciamo che la globalizzazione ha fallito. Per lui no. La distorsione deriva dal fatto che gli analisti occidentali si concentrano sul 15% della popolazione mondiale che vive appunto in Occidente. Ma ignorano le condizioni del restante 85% della popolazione. Gli ultimi trent’anni della storia umana sono stati i migliori per la maggior parte della popolazione proprio grazie alla globalizzazione che ha consentito un sostanziale aumento della classe media in Asia, diffondendo ricchezza e fiducia verso un sistema stabilizzato su regole sempre più eque per la maggioranza dell’umanità.
La percezione del fallimento della globalizzazione è legata al fatto che le élite occidentali, che ne hanno goduto appieno, non solo non hanno condiviso i benefit con le masse occidentali ma nemmeno le hanno preparate all’enorme cambiamento in atto e chiaramente Trump e Brexit sono il risultato di questo fallimento.
Gli USA hanno le migliori università con l’intellighenzia più evoluta al mondo ma nessuno ha avvertito la propria cittadinanza che l’evento più importante del 2001 non era l’attacco dell’11 settembre ma l’ingresso della Cina nel WTO (World Trade Organization, in italiano Organizzazione mondiale del commercio), perché l’ingresso di quasi un miliardo di lavoratori nel sistema commerciale globale avrebbe comportato inevitabilmente una rivoluzione epocale, comprendente anche la perdita di molti posti di lavoro in Occidente. Quindici anni dopo, nel 2016, i ceti più bassi delle rispettive popolazioni, esasperate dalla continua perdita di potere d’acquisto e da condizioni di vita sempre peggiori, hanno prodotto il voto di protesta per Trump e Brexit.
Kishore Mahbubani vede però una soluzione. Come fece a suo tempo Lee Kuan Yew – uno dei più grandi statisti mondiali degli ultimi cento anni – a Singapore, rendendola il paradiso odierno, c’è bisogno di leader, tanto onesti quanto coraggiosi, che raccontino alle popolazioni in Occidente la dura verità. Ossia che oggi America ed Europa non possono competere se non facendo grandi modifiche, dimenticandosi, per esempio, delle settimane lavorative di 35 ore, delle sovvenzioni agricole in Europa o dei paracaduti pensionistici a lungo termine.
L’evoluzione è inevitabile.
Segue e termina giovedì 22 giugno.
 
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