Trumpismo in politica estera (seconda parte). Tra realismo e navigazione a vista: dalla Russia con furore.

Sempre in base al “realismo” di Trump, il giudizio di Robert E. Hunter – alto diplomatico statunitense di lunghissimo corso – è tagliente. “Chi, come me, è immerso da decenni nella vita politica di Washington – dice lui – non ha mai visto nulla di simile, compreso il collasso nervoso dei grandi network nazionali, nella demonizzazione di Trump e nella discussione della classe politica americana per l’inadeguatezza di un simile presidente. Dinanzi a questa prospettiva, non doveva essere eletto”. Continua Hunter: “La nazione è sopravvissuta a molte prove e sopravvivrà anche oggi ma in termini di impatto sulla politica americana e sulla società, siamo a livello del Watergate, con danni collaterali soprattutto in politica estera”. I riferimenti sono soprattutto per il “Russiagate”, ossia le presunte rivelazioni di informazioni segrete da parte di Trump al ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, ma prima ancora fa polemica il ruolo esercitato da Mosca in diverse fondamentali questioni di sicurezza nazionale americana, come le ingerenze nelle elezioni presidenziali del 2016. Con un aspetto che secondo Hunter è ben chiaro e attribuibile al comportamento di Trump: “peggio di un crimine, è un errore”.
Il Russiagate si basa su fondamenta ben chiare. In primo luogo c’è il desiderio di Trump di adottare un approccio diverso, ma non ancora specificato in quale direzione debba andare, per affrontare lo sfidante russo dopo che i suoi ultimi due predecessori non sono riusciti a limitare l’arroganza di Vladimir Putin. Poi, aspetto non secondario, c’è l’incapacità di Washington di gestire i rapporti con la Russia per la sicurezza occidentale.
Per dinamiche che arrivano da lontano.
Nel 1975, con il Patto di Helsinki, la Russia – allora ancora Unione Sovietica – accettò l’inviolabilità delle frontiere nazionali in Europa. Nel 1994, a Budapest, insieme a USA e Regno Unito, la Russia – ai tempi Federazione russa – firmò un memorandum per il rispetto dell’indipendenza e della sovranità dei confini esistenti dell’Ucraina, con la promessa di non usare armi contro Kiev tranne in caso di autodifesa. Accordi violati da Putin nel 2014 con l’annessione della Crimea e con i conflitti in Ucraina, seguiti da intimidazioni agli alleati della NATO in Europa centrale, al quale si possono aggiungere i cyber-attacchi in mezzo mondo e un ruolo sempre più rilevante – anche a causa della incertezza della politica estera statunitense – nei confronti della guerra civile siriana, riaffermando lo status di grande potenza in Medio Oriente.
La mancanza di rispetto verso la sicurezza interna di altri paesi con intromissioni varie e un palese quanto odioso esercizio di sfere di influenza russa sono parte del DNA di Mosca. D’altro canto, testare seriamente se la Russia avrebbe potuto in qualche modo essere indotta a svolgere un ruolo costruttivo nella sicurezza internazionale – con altri accordi e vantaggi per tutti – non è stato adeguatamente verificato da parte degli USA. Questo perché nelle tre amministrazioni statunitensi che hanno preceduto quella di Trump, la Russia, una volta a terra con il crollo dell’Unione Sovietica, a terra doveva restarci, in una dinamica che però era in netto contrasto con i bisogni fondamentali dell’Occidente.
Eppure nel 1989, il presidente George W. Bush, mise in campo una strategia lungimirante e senza precedenti per un’“Europe whole and free”, comprendendo che la Russia non poteva essere trattata come la Germania nel Trattato di Versailles del 1919 (per un’acredine che poi ha generato la Seconda guerra mondiale). Ma già prima che Putin fosse al potere, Washington ha cambiato la rotta tracciata da Bush Senior, con diversi sgarri, per mano della NATO, nello scacchiere vitale russo, verso i suoi confini in Europa centrale.
Ovviamente la Russia non è scusabile per i suoi comportamenti in Crimea, Ucraina e per le altre pressioni in Europa. Come non lo sono nemmeno le interferenze nella campagna elettorale presidenziale americana, anche se possono essere giustificate dal fatto che gli Stati Uniti, per decenni, sono attivamente intervenuti nella politica e nelle elezioni di decine di paesi in tutto il mondo. Ma il Russiagate che riguarda il presidente Trump, sta privando gli USA della possibilità di ripristinare rapporti costruttivi con la Russia per il bene di interessi comuni, Occidente in genere compreso, per un realismo che servirebbe nelle azioni e non nelle parole.
 
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