La Messicanizzazione dell'Italia si estende al Nord, non più, scenario ma realtà

Fonti giornalistiche avvalorano la mia idea della “messicanizzazione” dell’Italia, ovvero del processo in corso – purtroppo già avviato e inevitabile – che porterà il nostro Paese, a causa della globalizzazione (dove esiste un “mondo” che corre che noi non riusciamo più a raggiungere), ad avere tre “teste” che viaggeranno parallele e distanti.
A un settore industriale-artigianale moderno, fatto di eccellenze capaci di esportare il Made in Italy in tutto il mondo (l’oleodinamica a Modena, le macchine impacchettatrici a Bologna, i vini della Franciacorta, eccetera), si affiancheranno due realtà sul modello Messico: una grossa area di “nero”, con grandi aziende al suo interno e con le forze dell’ordine che chiuderanno gli occhi per far sì che la gente non vada a delinquere; e un terzo settore che sarà a fortissima criminalità. E come ho detto a suo tempo, l’unica possibilità che avremo dinanzi a questo scenario sarà quello di cercare di tenere bilanciate queste tre macro-realtà.
L’esempio che mi riportano le mie fonti riguarda la nuova frontiera dei cinesi a Prato, con una seconda fase della “cinesizzazione” del tessile di basso-medio livello italiano. Con i famosi laboratori cinesi pratesi, sia nella confezione che nella maglieria, che sono diventate aziende a tutti gli effetti, assumendo molto personale italiano (soprattutto per la parte commerciale e amministrativa), e addirittura vendendo loro stessi fuori dall’Italia. Realtà che sono diventate partner commerciali importanti per tanti produttori di tessuti italiani. Fin qui potrebbe sembrare che il processo vada bene perché si normalizza verso la legalità. E invece, se andiamo a monte, a chi confeziona i capi per queste aziende, il quadro diventa disperato e pericolosissimo.
Ultimamente, soprattutto nell’Italia del nord, si registra la difficoltà nella “galassia” imprenditoriale cinese a reperire manodopera con la conseguente chiusura di tanti micro-laboratori tessili, problematica simile all’altro grande business dei cinesi in Italia, la ristorazione, con la difficoltà a trovare personale che lavori accettando i miseri salari offerti e gli orari eccessivi richiesti.
Perché? A causa dell’ultima frontiera dei lavoratori cinesi nel tessile di Prato, che sta soppiantando il sistema dei mini-laboratori di 8-12 persone. Un tizio prende in affitto, ovviamente da un italiano, un capannone. Lo suddivide, con semplici strisce sul pavimento, in zone di 15-25 mq ciascuna e mette 3 o 4 macchine da cucire in ogni zona. Poi queste aree attrezzate le affitta a 1.500-2.000 euro al mese. A chi le affitta? A famiglie o gruppi – sempre cinesi – di 3 o 4 lavoratori che nel loro spazio ci mettono dentro anche un paio di materassi per dormire. A questo punto le aziende cinesi più grosse, committenti, distribuiscono il lavoro direttamente o tramite intermediari a tutte queste “stanzette”.
Un meccanismo simile, ovviamente, è in nero al 100%. La qualità della produzione è inevitabilmente molto bassa ma ogni spazio attrezzato può rendere ai lavoratori che ci lavorano (anche 16 ore al giorno) circa 8.000 euro al mese. Per un sistema che diventa molto attrattivo per i lavoratori cinesi che per l’appunto abbandonano i ristoranti e i mini-laboratori tessili.
Direte voi, e i controlli delle autorità? Pare che ci sia l’immancabile giro di mazzette per avvertire queste realtà e smantellare tutto il giorno prima dell’eventuale controllo.
Mentre, tanto per non farci mancare niente, il tessile sommerso di Napoli, reso famoso anche da Gomorra di Saviano? Be’, mi dicono che i costi di confezione sono più bassi di quelli di Marocco e Tunisia.
In conclusione, a fronte di tutto ciò, forse tra un po’ bisognerà parlare di italianizzazione del Messico più che di messicanizzazione dell’Italia.
 
 

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