LA VENDETTA DI PUTIN. Un quarto di secolo di “interferenze” USA-Russia.

Lo sappiamo, gli americani sono dei narratori nati. Ce l’hanno nel sangue: nella letteratura, nel cinema e nel giornalismo. Dei maestri assoluti. E ovviamente non si sono smentiti nemmeno stavolta, commentando la vittoria di Trump alle presidenziali, con i giornali che poco tempo dopo hanno introdotto l’efficace slogan: “La vendetta di Putin”.
In pratica, uno slogan che sembra il titolo di un bel kolossal hollywoodiano con Tom Hanks e che racchiude in sé tutte le interferenze e manipolazioni operate – pare con successo – dai russi nelle presidenziali 2016 degli Stati Uniti per contribuire all’elezione di The Donald, un “amico” del loro popolo; o, quanto meno, sicuramente più “amico” della possibile alternativa rappresentata da Hillary Clinton.
I toni, come si conviene in questi casi, sono scandalizzati. E solo la nicchia più obiettiva della stampa statunitense fa un equo raffronto con quello che storicamente ha fatto il suo governo, prima per portare e poi, nell’ultimo quarto di secolo, per rafforzare la democrazia nella ex Unione Sovietica e nei Paesi del Patto di Varsavia, anche in termini di investimenti: colossali ben più di una mega-produzione di Hollywood.
Per esempio, nel 1992, per puntellare il regime russo traballante (e la sua economia), il Congresso approva il “Freedom Support Act” che autorizza una serie di programmi di “assistenza” verso la Russia per avere un parlamento liberamente eletto, la riforma del “tax code” e diverse organizzazioni non governative indipendenti. Tra il 1993 e il 2007 tutti coloro i quali hanno investito in titoli di Stato USA hanno di fatto sborsato 2,2 miliardi di dollari per “aiutare” la Russia, per un totale che ammonta a 28 miliardi di dollari a favore dei 12 stati della ex Unione Sovietica. Tra il 1992 e il 1999, sempre su spinta a stelle e strisce, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale hanno prestato 5 miliardi di dollari al governo russo mentre i contribuenti americani ci hanno “appoggiato” altri 9 miliardi di dollari. La somma di tutto questo ben di Dio ha concorso a contrastare la “guerra al terrore”, favorendo “la transizione dall’autoritarismo alla democrazia”, il “libero mercato” e il “supporto alla globalizzazione”. Con almeno 20 agenzie governative USA coinvolte in programmi economico-sociali per la democratizzazione della Russia.
Va detto che il programma di assistenza degli USA per la Russia – insieme a quelli analoghi per le ex repubbliche russe ed ex Paesi del Patto di Varsavia – ha costituito uno degli interventi non militari più importanti, attivi e intrusivi nella politica di un altro (grande) Stato sovrano nella storia dell’umanità. Di sicuro erano “interferenze” più invasive di quelle (eventualmente) avviate di recente da Putin. In effetti, però, sono state fatte in nome dei principi fondativi degli americani: la libertà e la democrazia (ovviamente come la intendono loro); e loro stessi si sono mossi pensando di cambiare la Storia, vedendo una Russia democratico-capitalistica come un dono per il mondo e per la sicurezza del pianeta – oltre che di quella nazionale – dopo gli anni bui e i rischi nucleari della guerra fredda.
Il tanto dispendioso quanto ambizioso obiettivo degli USA è stato raggiunto?
Chiaramente no. Perché un tale programma di assistenza, anche fatto a fin di bene (nella stessa visione comune che può attribuirgli il mondo occidentale), viene considerato, perlomeno dal Paese che lo subisce, intrinsecamente sovversivo, e lo combatte con ogni mezzo. E poi perché a combatterlo, ormai dal 1999, c’è una figura di rilievo assoluto (nel bene e nel male) come quella di Vladimir Putin, che ha saputo concentrare la “democrazia” russa – e la stessa società civile – intorno al suo potere quasi illimitato, ridimensionando, anno dopo anno, tutto ciò che si muoveva contro di lui attraverso il supporto economico americano.
E dopo le sanzioni internazionali – sempre su spinta americana – alla Russia per la “quasi” guerra contro l’Ucraina, Putin ha visto nelle presidenziali 2016 negli Stati Uniti una opportunità per restituire allo storico nemico un po’ di interferenze, anche perché effettivamente il suo rapporto con Trump partiva da basi decisamente più amichevoli.
Con un paio di messaggi su tutti. Da un lato si tratta di una lezione che serve agli USA per capire, in modo definitivo, che le loro “buone intenzioni” in politica estera sono di solito viste come intrusioni da controspionaggio della peggior specie. Dall’altro lato, al motto del “chi la fa, l’aspetti”, mi pare una rivincita che probabilmente non farà male a nessuno, se non allo smisurato ego americano.
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