Ha da passa' a nuttata!

“Ha da passa’ a nuttata!”. Così diceva Edoardo De Filippo riprendendo un vecchio detto della plurisecolare saggezza napoletana. Forse dovremmo imitarlo anche noi italiani ogni volta che pensiamo ai nostri rapporti con gli Stati Uniti.


Allorché si esamina la geopolitica del presidente Trump e se ne considerano le mosse più recenti sullo scacchiere internazionale, l’unico modo per non cedere allo sconforto consiste nel cercare di ricordarsi che The Donald se ne andrà al termine del suo mandato. Dopo, forse, saremo liberi di riprendere il nostro consolidato rapporto di vecchi alleati con quegli Stati Uniti che conoscevamo tanto bene e apprezzavamo al punto tale da confidare in loro un’incontestata leadership nel settore della sicurezza comune.


Forse! È un avverbio che abbiamo usato ben due volte. Tutta la tristezza e l’incertezza del nostro futuro appare proprio concentrata in questo avverbio.


Il vero interrogativo consiste nel capire se Trump sia o meno un’anomalia, il che lo qualificherebbe come un fenomeno temporaneo, dannoso quanto si vuole ma di durata limitata. O non si configuri invece come un realistico frutto della maturazione di un grande paese che sta andando in una direzione diametralmente opposta alla nostra.


Gli indizi in questo senso sono abbastanza numerosi. Quando terminò la guerra fredda, ad esempio, l’Europa attese invano da parte degli Stati Uniti un’apertura che consentisse non solo di recuperare la Russia, che molti di noi sentono come europea, ma anche di aiutarla in uno dei momenti più duri e disperati della sua storia recente.


Gli Usa e la Nato – in teoria espressione di un’alleanza ma in realtà governata con pugno di ferro dagli Stati Uniti – preferirono invece innescare una corsa verso l’Est che nella sua miopia ricorda la durezza con cui gli alleati decisero di trattare i tedeschi alla fine del primo conflitto mondiale.


Carta di Laura Canali

Carta di Laura Canali


Così le nostre strade sono rimaste divise. Ci siamo confrontati con la Russia in Georgia e continuiamo a confrontarci in Ucraina. L’Europa ha perso una grande occasione. Gli Stati Uniti (forse) no poiché, al di là di tutta la letteratura sul “pilastro europeo” della nostra alleanza, è da molto che non amano più l’idea di un rapporto bilaterale fra i due lati dell’Atlantico, impostato su reali basi di parità.


Gli anni Novanta del secolo scorso hanno dato ai nostri cugini di oltre oceano non soltanto il gusto di sentirsi la prima nazione del mondo ma anche l’illusione che ciò fosse qualcosa destinato a durare, se non in eterno, almeno nel lungo periodo. La letteratura del decennio successivo, che vide al potere negli Usa i neo conservatori, si riempì di riferimenti all’impero romano, che veniva visto come il modello a cui ispirarsi. Più o meno negli stessi anni Andrew Marshall, lo storico guru del Pentagono, spiegava al mondo intero come fosse necessario “preparare il secolo dell’impero americano”, mentre il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld illustrava agli alleati europei la sua dottrina bellica, sottolineando come gli statunitensi fossero destinati a gestire gli ospiti e la sala da pranzo lasciando a noi europei il compito di “rimettere in ordine la cucina”.


Anche nei rapporti con l’ecumene islamico sono ormai più di venti anni che gli Stati Uniti procedono con un occhio molto attento ai propri interessi particolari. Rimangono tuttavia nella più assoluta indifferenza per i problemi che le loro iniziative possono creare a tutti i loro alleati, in particolare a quelli mediterranei che condividono con gli arabi un mare che vorrebbero vedere in stato di pace.


Le iniziative statunitensi, motivate dall’idea che il terrorismo andasse combattuto negli Stati in cui esso trovava copertura e appoggi governativi – i cosiddetti Stati canaglia o rogue states – hanno finito col destabilizzare un’area molto vasta, lontana dagli Usa ma relativamente vicina all’Europa, in cui una serie di conflitti e di successive occupazioni militari protratte nel tempo hanno lasciato dietro di sé, in Afghanistan, in Iraq e in Libia, soltanto stati falliti o in procinto di fallire.


A ciò si è aggiunto il caos delle cosiddette primavere arabe. Gli statunitensi hanno equivocato sin dall’inizio il loro significato, scambiando disperate rivolte per il pane con pressanti richieste di democrazia, finendo poi con l’aggravare ulteriormente lo stato delle cose puntando sulla Fratellanza musulmana, un cavallo perdente.


Tre punti devono essere sottolineati in questo ambito.


Il primo consiste nella continuità di una politica che è rimasta in sostanza la stessa pur nell’alternanza repubblicani/democratici/repubblicani per il controllo della politica statunitense. Obama, a ben guardare, ha continuato la politica di Bush cercando di renderla solo meno onerosa per gli Stati Uniti e delegando agli alleati buona parte degli impegni sul campo. Nel frattempo ha tentato di ubriacare il mondo arabo di promesse poi puntualmente disattese. Il famoso discorso del Cairo è di certo il migliore esempio di tale politica.


Il secondo punto consiste nel modo in cui sono stati chiusi entrambi gli occhi sulle responsabilità dell’Arabia Saudita e degli stati arabi del Golfo, i maggiori finanziatori, se non gli ispiratori, del terrorismo fondamentalista islamico. Una chiara dimostrazione di quanto la penisola arabica conti ancora nella strategia globale statunitense, non fosse altro per evitare un avvicinamento troppo marcato dell’Arabia Saudita alla Cina.


Il terzo punto è la disinvoltura con cui in questo scenario è stata giocata una’alleanza atlantica privata di ogni connotazione politica e ridotta a mero contenitore per coalitions of the willings pilotate dagli Stati Uniti. Un caso di scuola è rappresentato dall’Afghanistan che ha visto la Nato intervenire fuori dall’area prevista dal Trattato, con paesi contributori del tutto inediti come Corea e Giappone e impegnandosi in azioni ben diverse da quelle che di norma avrebbero dovuto esserle affidate.


Un’evoluzione? Forse, ma certo non per paesi come il nostro dove il “libro bianco per la difesa” attribuisce una strategia a medio raggio limitata alla zona mediterranea e alle aree circostanti e dove l’avventura afghana è costata più di cinquanta morti.


In definitiva, anziché stroncare il terrorismo, le iniziative statunitensi hanno contribuito a inasprirlo e a diffonderlo. Dal punto di vista Usa, esse possono avere avuto il pregio di evitare che gli Stati Uniti divenissero bersaglio unico e privilegiato. In un certo senso la loro azione e la reazione all’estremismo hanno “spalmato” gli attacchi e l’insicurezza su buona parte del mondo. Dinamica che può essere vista di buon occhio a Washington, ma che non è certo recepita nella stessa maniera in tutti gli Stati europei, asiatici e africani che sono stati vittime di attentati sanguinosi.


L’ansia di rimanere la prima potenza del mondo, un punto su cui Trump ha costruito le sue fortune elettorali (anche Obama non l’aveva mai trascurato) rischia di rendere molto difficili i rapporti fra gli Usa e la Cina. Al momento attuale, almeno apparentemente, le due grandi potenze cooperano nel tentativo di risolvere la crisi nucleare nordcoreana e un incontro fra Trump e Xi Jinping – che avrà probabilmente questo argomento come principale tema di discussione – è previsto in Cina a novembre.


Sullo sfondo rimangono irrisolti i problemi maggiori fra i due paesi. Da un lato la politica di contenimento attuata da Washington nei riguardi di Pechino, specie nell’area del Mar Cinese Meridionale, dall’altro l’atteggiamento negativo nei riguardi di quelle nuove vie della seta che sembrano destinate a condizionare per i prossimi vent’anni la politica e l’economia cinese. Gli Usa si sono schierati contro il progetto di Pechino allineandosi agli storici rivali della Cina – il Giappone e l’India – considerando l’iniziativa come un’occasione unica di crescita del loro rivale e quindi come una seria minaccia al soft power statunitense, al momento dominante nel mondo. Una presa di posizione avvenuta senza alcuna consultazione con gli alleati europei. Da canto loro, essi hanno un punto di vista opposto considerando le nuove vie della seta un’irripetibile occasione di sviluppo.


Carta di Laura Canali

Carta di Laura Canali


In questo quadro generale si innestano le iniziative più recenti di Trump. La prima ha riguardato l’uscita dagli Stati Uniti dall’Unesco, organo accusato di avere aperto una strada per il futuro riconoscimento di uno Stato palestinese, che tuttavia non ha suscitato molto stupore. La dipendenza della politica estera statunitense da Israele, e non viceversa, tramite la cosiddetta lobby ebraica è ormai nota. Non si capisce però l’utilità di un gesto del genere in un momento storico in cui tutti, palestinesi compresi, hanno capito che nessuna fetta della Cisgiordania verrà mai restituita alla sovranità araba. Una mossa, quindi, che serve probabilmente al presidente Trump per sottolineare la sua affidabilità a una parte del proprio elettorato, ma che non va oltre a questo. Non ci sono state reazioni di rilievo, in più con notevole eleganza l’Unesco ha scelto proprio in questi giorni il nuovo segretario generale eleggendo un’ebrea di nazionalità francese e di origine marocchina, ossia la sintesi mirabile della fusione di tre grandi civiltà. La nomina ufficiale arriverà il 10 novembre con la votazione finale di tutti i 195 paesi membri.


Molto più gravi sono invece le prese di posizione di Trump nei riguardi della Corea del Nord da un lato e dell’Iran dall’altro. Da un certo punto di vista le invettive contro Kim Jong-un possono essere giustificate, visto che rientrano nel quadro di due violente politiche declaratorie che si confrontano più sul piano interno che verso l’esterno. Rimane il dubbio che a prese di posizione tanto accese possano corrispondere un giorno iniziative tali da far precipitare una situazione in un equilibrio molto precario.


Molto più grave risuona il rifiuto unilaterale di Trump contro l’accordo internazionale sul nucleare iraniano che aveva, dopo lunghissimi e difficilissimi negoziati, normalizzato i rapporti tra Teheran e l’Occidente. Si tratta di una mossa che è stata apprezzata sia da Israele che dal mondo islamico sunnita, impegnato in questo momento in una lotta senza esclusione di colpi con l’Islam sciita guidato da Teheran. La decisione ha invece infastidito l’Unione Europea e la Russia che su quell’accordo hanno impegnato buona parte della loro credibilità. Nessuno dei due è stato consultato prima che la nuova linea americana venisse resa pubblica. In più l’Europa non dimentica, come sembra sia invece avvenuto oltre Atlantico, che tutto il terrorismo estremista che in questo momento l’affligge è di origine sunnita, non sciita. È così possibile che in futuro le nostre strade e i nostri interessi divergano anche su questo punto, accentuando una separazione che si sta rivelando sempre più profonda.


Carta di Laura Canali

Carta di Laura Canali


È arrivato il momento di avere il coraggio di vedere la situazione com’è veramente, e non come vorremmo che fosse, rendendoci conto di come il panorama internazionale sia cambiato al punto tale da affievolire, sino quasi a cancellarlo, quel legame transatlantico che era stato per decenni il faro della nostra politica e della nostra sicurezza.


Inutile sperare in un ritorno ai bei tempi antichi quando “a nuttata” sarà passata e il mandato di Trump terminato. L’attuale presidente è soltanto la chiara espressione della visione americana del mondo. Forse dovremmo anche essergli grati perché la sua rozza franchezza ha reso evidenti aspetti che la consumata abilità politica dei suoi predecessori nascondevano meglio.


I tempi cambiano, anche i paradigmi cambiano, le alleanze pure. Per decenni siamo stati legati al nostro “Grande Fratello”, in una simbiosi di cui da entrambi le parti dell’Atlantico si è molto approfittato. Oggi le strade divergono (e non solo da oggi) anche se fino a adesso abbiamo fatto finta di non accorgerci dell’evidenza.


L’Unione Europea ha, o almeno avrebbe, la potenzialità per inserirsi a pari titolo nel gruppo dei poli di riferimento del mondo. Abbiamo tuttavia un disperato bisogno di pace al nostro interno e sui nostri confini per proseguire sulla strada che avevamo intrapreso e che da tempo sembra essere smarrita. Ci servono degli accordi particolari con i più grandi dei nostri vicini – Turchia e Russia – per poter indirizzare insieme le nostre energie verso una crescita armoniosa. Dobbiamo essere circondati da “una cintura di amici”, il che significa avere ottimi rapporti con tutto il mondo islamico sunnita o sciita per essere liberi di affrontare con serenità il nostro futuro.


Nel fare questo non abbiamo bisogno di alleati che ci trascinino in una nuova guerra ogni cinque anni, che soffino periodicamente sulla rivalità fra “la vecchia e la nuova Europa”, che prendano costantemente iniziative che ci coinvolgono senza consultarci e che siano dominati dall’angustia di dover restare ad ogni costo la “prima potenza del mondo”.


Questo non vuole dire che bisogna rinnegarli. Restiamo anzi pienamente grati per i decenni di amicizia e per la strada che abbiamo fatto insieme. Siamo riconoscenti anche per il modo in cui ci hanno aiutato nelle due guerre mondiali del secolo scorso, un debito che dovremmo ritenere pagato a sufficienza avendo permesso agli Stati Uniti di utilizzare il territorio europeo per più di quarant’anni come il potenziale campo di battaglia di una terza guerra mondiale (che per fortuna non mai è stata combattuta). Sappiamo altresì che con loro condividiamo i nostri valori, magari non tutti ma certo la maggior parte di essi. Siamo consci infine di come anche in futuro i nostri ideali e i nostri interessi spesso coincideranno.


Nel frattempo siamo cresciuti e mentre crescevamo il mondo è cambiatointorno a noi. Ora sappiamo che possiamo camminare da soli e vorremmo farlo anche se ci rendiamo conto di quali difficoltà presenteranno la revisione di un paradigma che riconosceva il “legame transatlantico” come la sua struttura portante.


Non è detto, tra l’altro, che al termine di questa revisione tutto sia cambiato. Ci sono dinamiche e istituzioni che ancora manterrebbero una propria ragion d’essere se venissero rapidamente adeguate ai tempi nuovi. Bisogna agire rapidamente se non vogliamo scoprire domani come, crogiolandoci nel nostro attuale miope immobilismo, abbiamo finito col perdere tutto!

Articolo pubblicato su Limes Online

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