Grande è meglio. Elogio dei monopoli della Silicon Valley.

Ho una visione molto più benigna delle grandi società tech e concordo con quanto sostiene il mio caro amico Rob Atkinson ben conscio che la gran parte di voi mi travolgerà con una valanga di merda. Attivo senza esitazione il #contastronzi 😂😂👋👋
L’articolo, di Viviana Devoto, è tratto dalla rubrica “La Lettura” del Corriere della Sera
Grande è meglio. Elogio dei monopoli della Silicon Valley.
Mostri di potere, in grado di determinare l’agenda politica, di influenzare importanti votazioni e, alla base, condizionare e controllare le vite degli utenti «normali». Il potere delle cinque aziende partite dalla Silicon Valley — Google, Apple, Facebook, Amazon e Uber (cioè le imprese che formano l’acronimo Gafa più Uber) — è diventato un monopolio: una realtà che inizia a esse‐ re avvertita come una minaccia. Del tutto fuori dal coro dei demonizzatori, con una presa di posizione molto provocatoria, si colloca Robert Atkinson, nato in Canada, che ha lavorato come esperto di tecnologia e consigliere al Congresso americano durante le amministrazioni democratiche Clinton e Obama, ed è oggi presidente dell’Itif, una fondazione non-profit con base a Washington, che costituisce un’autorità in materia di Information technology e innovazione.
«Prima di maledire le grandi compagnie americane come fanno alcuni politici — spiega a “la Lettura” Atkinson — dovremmo preoccuparci di guardare i dati sulla nostra economia. Le più importanti aziende della Silicon Valley sono produttive, pagano meglio i propri impiegati, offrono agevolazioni come tutela sanitaria e straordinari. In più sono destinate a non fallire mai. Tutto questo si traduce in prezzi più convenienti per i consumatori».
Sui dati che ha studiato e raccolto, Atkinson ha scritto un libro con il professore Michael Lind, Big is Beautiful , che uscirà a marzo negli Stati Uniti per The Mit Press, in cui invita i detrattori a ricredersi: «Le grandi corporation non sono dei mostri».
Però, mister Atkinson, tra le conseguenze del successo delle grandi compagnie nella Silicon Valley ci sono l’innalzamento del costo della vita e l’acuirsi delle disuguaglianze sociali.
«Quando si guarda realmente ai dati, ci si accorge che questa non è la realtà. Le grandi compagnie investono di più nella formazione e il bacino da cui attingono garantisce maggiore diversità per tutelare le fasce svantaggiate, a livello di sesso, razza e di stato sociale, rispetto a quello che possono fare le piccole imprese. Parlando di disuguaglianze sociali e dell’innalzamento — per esempio — del costo delle case nella Silicon Valley, avrebbe dovuto essere il governo americano a preoccuparsi di creare un polo edilizio più forte che potesse accogliere la domanda durante il boom del tech in California. Sulle disuguaglianze c’è poi un testo di riferimento che consiglio a tutti, La nuova geografia del lavoro del ricercatore italiano Enrico Moretti, professore di economia a Berkeley, che spiega come la crescita e lo sviluppo di alcune aree si influenzino a vicenda, moltiplicando le opportunità. “Per ogni posto di lavoro nuovo alla Apple — dice Moretti — ne vengono generati altri cinque in settori tradizionali”. Questi sono dati, signori, che non possono essere ignorati».
Nel suo saggio, lei mette sotto accusa i piccoli business, quell’ossatura di imprenditori partiti da zero che ha fatto grande proprio il sogno americano, a cominciare dalla mitologia ormai proverbiale del garage come laboratorio delle idee di successo.
«Qui occorre fare alcune distinzioni. Le piccole aziende non sono la causa della prosperità in America. Ho incominciato la mia ricerca proprio partendo da alcuni assunti di una certa classe politica, alimentati da un misto di populismo e di ideologia del libero mercato, che descriveva le grandi compagnie come dei mostri, mentre i governi sono sempre andati molto oltre nel sostenere e tutelare modelli deboli di business, che poi erano destinati a fallire. Ogni presidente moderno ha cercato di sostenere i “piccoli” e ogni presidente moderno si è clamorosamente sbagliato. Il progresso e l’ascesa economica arrivano da altre parti. Secondo i dati del centro di statistiche sul lavoro, le imprese con più di 500 impiegati pagano i propri dipendenti il 77% in più delle piccole aziende. In generale, le “grandi marche” sono più produttive per l’economia, possono permettersi di vendere a prezzi competitivi, e pagare stipendi migliori».
Ci sono troppi soggetti nella Silicon Valley che tentano la fortuna e non arrivano da nessuna parte?
«Uno studio ha appena analizzato come in California nasca una startup ogni sei minuti».
Attenzione, però. Ricerche recenti sembrano documentare proprio un crollo dei finanziamenti verso le startup…
«Intanto succede questo: molti ingegneri, formati e addestrati dalle grosse compagnie, tentano il salto e cercano di correre da soli. Naturale. Ma poi succede anche questo: che nella maggior parte dei casi, queste idee restano deboli se lasciate a se stesse e non inglobate in progetti economici più vasti. La verità è che il sogno di diventare grande è l’obiettivo di ogni impresa. D’altra parte c’è da rimarcare che le aziende tecnologiche hanno portato, dal 2007 al 2016, una crescita dell’occupazione del 20 per cento, da 1,2 milioni di lavoratori a 1,5 milioni».
Come vede il futuro dell’innovazione da qui a dieci anni?
«Credo che le grandi compagnie troveranno il modo di cambiare e innovarsi. Prendiamo per esempio il caso di una grande realtà della tecnologia: Twitter. Aveva un giovane amministratore delegato, Jack Dorsey, che era anche il suo fondatore. Dopo un grande successo iniziale, l’idea non è rimasta forte anche per alcuni errori di maturità. Ecco, credo che nel prossimo futuro le imprese impareranno a svilupparsi nel tempo, apprendendo proprio dai loro errori o dalle aziende con cui sono chiamate a competere e sfidarsi».
Il modello Silicon Valley è riproducibile altrove?
«Ci sono molti luoghi del mondo che hanno già adesso centri tecnologici, autentici hub, molto attivi: il Brasile, il Giappone e, in Europa, Stoccolma e Londra. Il futuro potrebbe essere certamente in Cina: a Pechino c’è un centro molto dinamico che già sta producendo ricchezza e potrebbe certamente sfidare la California. L’Europa è penalizzata soprattutto dalle leggi in materia di privacy. Un aspetto su cui non riflettiamo spesso: critichiamo le aziende della Silicon Valley».
 
Qui il PDF

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *