Gli USA ai tempi dell’iPhone. Una nazione ad alto profitto e bassa prosperità

La provincia degli Stati Uniti, a pochi mesi dalle presidenziali, offre uno spettacolo sconcertante di cittadine una volta rigogliose che oggi hanno interi isolati pieni di negozi chiusi, strade sbarrate e un solo centro commerciale che serve l’intero territorio. E, come se non bastasse, la metà degli abitanti è disoccupata, con molti di loro che pesano anche trecento chili perché nei ristoranti c’è la diabolica formula del buffet a prezzo fisso “All you can eat” (Tutto quello che puoi mangiare), con fette di torta da un chilo l’una! È questa, letteralmente, la “pancia” dell’America.

Uno scenario piuttosto apocalittico che arriva da lontano e che Andrew Grove, un “gigante” della Silicon Valley – che ha partecipato alla fondazione della Intel Corporation, guidandola fino al 2004 e che ci ha lasciati lo scorso 21 marzo, all’età di 80 anni –, ci aiuta a decifrare grazie a un saggio scritto per Bloomberg nel 2010. La Silicon Valley, spiega Grove, per sfruttare appieno il vantaggio competitivo delle sue innovazioni, ha delocalizzato la produzione in Asia perché era più redditizio; quindi, intenzionalmente, ha inciso sulle dinamiche occupazionali degli Stati Uniti e oggi il prezzo da pagare è altissimo, non solo in termini di perdita di posti di lavoro ma anche di competenze negli USA.

E questi sono ovviamente alcuni dei temi più caldi della campagna elettorale americana. Infatti, tralasciando la grande vocazione industriale del secolo scorso, negli ultimi quindici anni sono spariti 7 milioni di posto di lavoro. Parallelamente, nello stesso periodo, la classe media si è impoverita perché chi prima lavorava alla Ford o alla Caterpillar guadagnando fino a 40 dollari l’ora, oggi lavora per 8 dollari da McDonald’s, UPS e Uber, sprofondando nella fascia di povertà. Inevitabilmente, gli americani hanno cominciato a farsi delle domande. Perché inventiamo l’iPhone se poi lo facciamo produrre e assemblare in Cina con componenti che provengono da tutte le parti del mondo?

La risposta è nella logica descritta da Grove. La ragione per cui Apple preferisce spostare la sua produzione in Cina non è solo perché i costi sono più contenuti ma è anche perché solo in Cina riesce a concentrare in una stessa location 150mila operai di cui 30mila sono ingegneri.

E la domanda ancora più tragica che si pongono gli americani più illuminati è: riusciremo a mantenere la leadership tecnologica senza avere in casa la produzione degli elementi più sensibili?

A parte la filiera legata alla difesa, la risposta è no. Nel lungo periodo anche le divisioni ricerca e sviluppo saranno costrette a spostarsi vicino alle fabbriche perché l’innovazione – che nasce dal confronto tra quello che si sogna di fare e quello che si può fare nella realtà – fatta a decine di migliaia di chilometri di distanza dall’industria è impossibile. Tanto più se ci sono problemi di “intellectual property”. Perciò le multinazionali americane che manterranno il controllo su innovazione e produzione non lo faranno in America ma nelle Silicon Valley del futuro, tra Israele, Cina e ovunque verrà trasferita la prossima fase produttiva.

Perché è andata a finire così? Secondo Andrew Grove, perché la Silicon Valley ha riposto troppa fiducia nella capacità delle start-up di creare posti di lavoro mentre la storia recente ci ha insegnato che è soprattutto la fase della produzione di massa che porta occupazione. Così un impegno a tutto campo per la produzione con base in America non è mai stata una priorità per la Silicon Valley e neppure per l’agenda politica degli ultimi governi. Una mancanza, secondo Grove, che sarebbe il risultato dell’errata convinzione che il libero mercato sia il migliore di tutti i sistemi economici.

Una convinzione che si sposa con la tesi piuttosto diffusa che il lavoro esportato non sia un problema fintanto che i profitti aziendali rimangono negli Stati Uniti. Il problema però sopraggiunge quando con l’aumentare dei guadagni, arriva anche l’esodo dei profitti verso l’estero con l’evasione fiscale.

Con quale risultato? Che siamo di fronte a una nazione ad alto profitto ma a bassa prosperità. “Tutti noi del mondo degli affari – scrive ancora Grove – abbiamo la responsabilità di sostenere l’attività industriale americana da cui dipendiamo e la società, la cui capacità di adattamento e la stabilità, abbiamo forse dato per scontato. La Silicon Valley e gran parte delle aziende americane devono ancora raggiungere e capire questo principio”.

Perciò che l’America possa perdere il suo primato di patria della tecnologia è un fatto ormai confermato dai crescenti problemi di bilancio che obbligheranno il governo a tagliare le spese in ricerca (sanitaria, militare e spaziale). E la bassa vocazione industriale e i budget che si riducono vanno a convergere con altri fattori come la tassazione che non può aumentare, il basso numero di laureati in ingegneria (negli USA sono 80mila l’anno mentre in Cina sono 2-3 milioni) e il contingentamento a 15mila professionisti esteri che entrano nel Paese annualmente: dinamiche ben più che sufficienti a fermare la crescita americana.

La situazione andrebbe quasi ribaltata ma il cambiamento si scontra con le logiche politiche. Difatti nel 70% dei casi gli Stati Uniti hanno avuto un presidente di un partito diverso da quello in maggioranza nel Congresso, con inevitabili conseguenze sulla governabilità. E intanto, se non si inverte la rotta, la logica dell’“All you can eat” sarà riservata alle multinazionali mentre la povertà della gente comune aumenterà sempre di più.

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